domenica 28 aprile 2013

“Le voci di dentro” al Piccolo Teatro Grassi di Milano



Risale al 1948, ma qualunque epoca potrebbe riconoscersi in questo copione. “Le voci di dentro” che Toni Servillo, degnamente affiancato dal fratello Peppe, propone fino al 28 aprile al Piccolo Teatro Grassi di Milano, è forse il testo in cui Eduardo De Filippo mette a nudo il suo pessimismo più feroce. Le voci a cui il titolo allude sono quelle dell’inconscio (un sogno tanto verosimile da divenire accusa di omicidio), ma anche gli istinti inconfessabili celati dietro la presunta normalità, il rancore amaro per una vita in cui la vicinanza è occasione di raggiro e contrasto. A questa condizione si può contrapporre solo il rifiuto della parola che stravolge e illude (i fuochi d’artificio di zi’Nicola) o la sofferta estraneità a un contesto che osserva, senza avere la capacità di rimuoverle, le sue macerie morali.

sabato 27 aprile 2013

L'indiavolato Salemme al Verdi di Salerno



Innegabile presenza scenica, gag adatte a tutte le stagioni, un copione di facile impatto tutto incentrato sul protagonista. Ultime repliche, il 27 e 28 aprile, al Teatro Verdi diSalerno, per “Il diavolo custode”, la commedia scritta e diretta da Vincenzo Salemme e accolta trionfalmente dal pubblico. Nei panni di un improbabile emissario delle tenebre, cerca di salvare dalla catastrofe il suo protetto, schiacciato da una vita di umiliazioni. Peccato che la vita sia troppo assurda per offrire soluzioni alle proprie incongruenze. Tra travestimenti, giochi di parole e rimandi all’attuale situazione socio-economica, emerge l’invito a fare tesoro dei buoni sentimenti. L’aspetto migliore della pièce resta però il suo lato amaro, la facilità con cui si resta intrappolati in nevrosi difficili da scardinare.

mercoledì 24 aprile 2013

Crudeltà e desiderio nel Rigoletto di Lorenzo Amato



All’alzarsi del sipario lo si vede affranto sul seggio del suo padrone nella solitudine più completa, per poi lasciare subito il campo alla festa lasciva che gli chiederà la sua maschera più grottesca e feroce. Le qualità interpretative di Leo Nucci, che rende scomodamente credibile in ogni gesto il suo Rigoletto, sono la punta di diamante della messinscena del capolavoro verdiano diretta da Lorenzo Amato applaudito al Massimo di Salerno. Il regista si affida a un cromatismo aggressivo per narrare una vicenda di violenze, inganni e aspirazioni calpestate: il nero dell’abuso, della mancanza di coscienza, il rosso, declinato in tutte le sfumature possibili, della carnalità e della passione, su cui spicca il bianco innocente della figlia di Monterone, che si aggira tra gli invitati del Duca di Mantova smarrita e sola non meno del buffone né meno vittima di lui -che pure, da servo coscienzioso, la insulta- di un contesto preoccupato solo di soddisfare ciò che vuole. La scena iniziale in cui i convitati si abbandonano in una sorta di orgia ai propri istinti non è infatti gratuita, ma oggettiva in tutto ciò che lo circonda l’animo del Duca, che concepisce l’esistenza come appagamento, senza tenere conto del prezzo che la conquista comporti. L’ampia scalinata della dimora ducale allude a una visione implacabile delle cose, per cui chi si trova (o si illude di essere) in alto è quasi naturalmente portato a schiacciare chi è in basso. La dimora a due piani di Rigoletto è leggibile a sua volta in senso simbolico: la donna che veglia dall’alto la figlia del protagonista è anche quella che aprirà la strada alla rovina, a dimostrazione di come i personaggi principali subiscano un destino che li sovrasta. L’opera fa emergere una concezione distorta dell’atto del desiderare. Senza poter manifestare liberamente la propria essenza, Rigoletto asseconda e subisce il volere del nobile, quest’ultimo sacrifica al suo egoismo le brame altrui, Gilda sceglie la morte in nome di quell’amore che avrebbe dovuto darle nuova vita. Desiderio e crudeltà sono i due poli tra cui oscilla la vita del buffone, lacerato dallo struggimento di non poter difendere quell’umanità che lo ingentilisce e che si concretizza nell’affetto esclusivo per la figlia. Alla dialettica alto/basso fa da contraltare quella giocata sull’interno e l’esterno. I sentimenti più elevati sono confinati in spazi chiusi, la sopraffazione si attua all’aperto o in luoghi che abbiano una “consacrazione ufficiale” (il salone del Duca). Con Gilda muore la possibilità di uscire da quell’incubo buio che è il mondo dei potenti.

domenica 21 aprile 2013

“Il visitatore” al Genovesi di Salerno



A chi affidarsi quando tutto sembra crollare? Come eludere la terribile sensazione che il proprio percorso sia stato vano? E vale davvero la pena di percorrere la strada che si apre inaspettatamente davanti agli occhi nei panni di uno sconosciuto difficile da decifrare? “Il visitatore” di Eric Emmanuel Schmitt è lo spettacolo che la Compagnia La Betulla allestirà il 21 aprile alle 19 presso il Teatro Genovesi di Salerno nell’ambito della quinta edizione del Festival Nazionale “Teatro XS”. Bruno Frusca dirige se stesso e Pino Navaretta, Michele Bolognini e Mariasole Bannò in una vicenda che vede contrapposti Sigmund Freud, oppresso dal pensiero che la Gestapo gli ha sottratto la figlia, e un individuo che afferma di essere Dio. Il dissidio tra i protagonisti diventa occasione per riflettere sul legame sempre irrisolto tra materiale e trascendente, tra etica e cinismo, tra ragione e follia.

sabato 20 aprile 2013

“Il pendolo”, una trappola chiamata coppia



Le stagioni che non sono più le stesse, la guida sconsiderata degli automobilisti, l’importanza della beneficienza, l’attenzione ai pregi della natura. Sono innumerevoli gli argomenti in grado di impegnare una coppia, purchè non si affronti la verità: quelle amarezze dure a morire e sempre pronte a ripresentarsi in un mare di parole inutili. Di scena il 27 e 28 aprile al Teatro Gambaro di San Fili (Cosenza) a cura dell’Officina Teatrale L.A.A.V,  “Il pendolo” di Aldo Nicolaj, diretto da Virginia Acqua, è un’opera limpida e tagliente sulla duplice solitudine che è il matrimonio. Antonella Valitutti e Alessandro Budroni sono perfetti nel descrivere la parabola discendente di due personaggi che non avrebbero sfigurato dinanzi a Madame Bovary per la capacità di autoingannarsi. Si innamorano infatti l’una dell’idea dell’altro e quando il peso della realtà li schiaccia, l’idillio è finito. Nell’oscillare tra la tenerezza dei primi approcci e la rassicurante immagine della famiglia unita in cui si apre come uno squarcio il rimpianto di una felicità perduta, i protagonisti sono del tutto credibili e sanno orchestrare nel loro gioco di maschere tutti i toni dell’ironia e della disillusione. La regista sceglie pochi accorgimenti per tratteggiare un’atmosfera: due cassapanche in cui recuperare gli abiti della giovinezza, lo scatolame passato da lei a lui per il picnic che ricorda il continuo snocciolare banalità, un contenitore da cui recuperare il telecomando, il viaggio in macchina ricreato con un volante e una cornice a fare da finestrino. Ogni atteggiamento dei coniugi induce a comprendere come la loro sia una vita in scatola, dove la consapevolezza -che giunge, non a caso, al momento del concepimento del figlio- non apre nuove vie, ma amplia i confini di una faticosa prigionia. L’intero spettacolo è un flashback, contrappuntato da recriminazioni e nostalgie, di Mira e Rupeo che si presentano con le stesse vestaglie indossate all’inizio in una domenica qualunque, il giorno in cui è più facile inciampare in ricordi e ansie. L’impostazione dello spettacolo rivela dunque di per sé una narrazione circolare in cui non si evade dal solco prefissato. In queste esistenze anestetizzate dal quieto vivere tutto si struttura un passo al di qua del comportamento esasperato. Eppure, quando restano entrambi a contemplare le infinite noiose domeniche che verranno, il senso del fallimento ha il peso di un macigno.

A Cava de’Tirreni “Le cinque rose di Jennifer”



Il corpo è l’unica certezza che abbiamo. Nella sua spiazzante sensualità o nella tenerezza dissimulata a fatica non conosce menzogne. Una scrittura teatrale realmente capace di coinvolgere tiene sempre nel debito conto il peso della carnalità e “Le cinque rose di Jennifer” racconta un corpo che desidera disperatamente riconoscersi come anima e ci riesce, sia pure a un prezzo altissimo. Antonello De Rosa sceglie il suo cavallo di battaglia per il nuovo appuntamento della rassegna “Omaggio ad Annibale Ruccello”, in programma domenica 21 aprile, alle ore 20.00 a Cava de’Tirreni presso la Sala Teatro Comunale “Luca Barba”. Jennifer è molto più di un omosessuale che attende invano la telefonata del suo amante e intercetta altre esistenze in un appartamento che è di fatto un microcosmo (al suo fianco le efficaci Francesca Pica e Tonia Filomena): la sua stessa vita è un’interferenza all’interno del comune sentire e da questo deriva il suo fascino.

sabato 13 aprile 2013

L’omaggio a Ruccello di Antonello De Rosa


 
La scrittura di Ruccello è mossa dal bisogno di racontare l’inquietudine che si annida soprattutto lì dove ci si illude di trovare delle certezze. “Mamme” ne è un chiaro esempio: le protagoniste dei tre atti unici sono una donna appiattita dalla sua esisteza di casalinga, una folle che si crede la Vergine e parla con Marlon Brando, esorcizzando con il suo linguaggio intemperante il trauma di uno stupro e di una maternità negata, e una madre “cattolica, apostolica e romana” che colpevolizza a tal punto la figlia incinta da spingerla al suicidio. “Traccia di Mamma” è la versione dell’opera che il regista e protagonista Antonello De Rosa proporrà il 13 aprile alle 21 presso la Sala Teatro Comunale “Luca Barba” di Cava de’ Tirreni nell’ambito della rassegna “Omaggio ad Annibale Ruccello”.  Puntando tutto su di una corporeità scandalosamente sincera, De Rosa coglie nell’autore l’aspetto disturbante della maternità: il bisogno d’amore frustrato da un mondo chiuso in se stesso, la purezza della pazzia in quanto non allineata, il rancore verso chi nasce e osa rifiutarsi di rispecchiare un’anima buia.                                                                    

mercoledì 10 aprile 2013

Artaud, la carne e l’anima

Identificare il Figlio di Dio e Artaud? Scelta necessaria più che blasfema. In entrambe le figure il verbo si fa carne. Mentre però nel primo quest’ultima diviene fragile tramite per approdare al regno dello spirito, nel secondo il corpo diviene il centro di tutto, momento rivelatore della menzogna della lingua, troppo propensa a chiudersi in gabbie da lei stessa costruite. Su questo assunto si basa “Iosonogesucristo. Da, per e con Antonin Artaud” (come a dire: per Cristo, con Cristo e in Cristo), lo spettacolo del Golem Teatro diretto da Giovanni Granatina e interpretato da Francesca Iovine e Dimitri Tetta in programma il 12 aprile alle 20.30 alla Domus Ars di Napoli nell’ambito del Festival Diecilune.
Sulla scena compaiono fogli sparsi ovunque, una sedia rossa rovesciata, un uomo che sembra essere precipitato sul palco da chissà dove. Tutto è duplice nella messinscena in omaggio alla libertà critica dell’artista. Il disordine è la conseguenza della permanenza nei sanatori e la confusione del reale che legittima leggi e comandamenti. Il ceppo su cui l’uomo batte il martello ricorda l’attenzione al ritmo dell’autore del “Teatro della crudeltà”, ma rimanda anche alla visione monolitica di chi non tollera pensieri alternativi. I fogli riuniti e poi sparsi sono sì le opere di Artaud, ma anche i frammenti di un mondo che solo nell’azione scenica può ritrovare unità e senso, come la sedia allude a un potere calato dall’alto che va abbattuto. La donna che, in preda a spasimi su una sedia a rotelle, accusa l’uomo di non essere il regista e scrittore è Paule Thévenin, che lo conobbe e sostenne. Non basta rievocare, bisogna rivivere, come lei sta vivendo nella sua pelle i tormenti del suo idolo. La duplicità ritorna nel momento in cui i due si scoprono incarnazioni e testimoni di colui che ha cambiato per sempre l’arte teatrale. Si rivive il suo insegnamento come nella celebrazione di una messa: l’invito a cercare in se stessi e non nelle scuole la ragione per recitare, l’inseguimento continuo dell’essenza delle cose («A me non piacciono i baci, ciò che mi piace è il gusto dei baci nei baci») e che il protagonista vuole riconsegnare a se stessa, seguendo con un gessetto i contorni degli oggetti in scena. In una transustanziazione laica si mutano l’una nell’altro: lui diviene il corpo malato e lei la sua amorosa custode. Il teatro va agito, deve essere percepito fin dentro le ossa, e richiede un sacrificio da cui si risorge a nuova vita. Sembra che le parole di Antigone risuonino solo per Artaud: mi dicono folle, ma forse è folle chi di follia mi accusa.

mercoledì 3 aprile 2013

“Fratto_x” al Bellini di Napoli

Potete scegliere: voltargli le spalle infastiditi dalla sua voce stridula, dai suoi movimenti convulsi, dal rifiuto di una messinscena che appaghi le vostre certezze, oppure lasciarvi trascinare dalla sua energia che non fa sconti a nessuno, men che mai a se stessa. Uno spettacolo di Antonio Rezza è molto più che un viaggio nell’assurdo: è una risposta eversiva alle bieche incoerenze della vita e “Fratto_x”, di scena al Teatro Bellini di Napoli dal 5 al 7 aprile, nato dal sodalizio con Flavia Mastrella, non smentisce questa linea. Affiancato da Ivan Bellavista in non-spazi che sovvertono qualsiasi criterio geometico, Rezza capovolge tutti i punti di riferimento possibili della cosiddetta normalità per attuare una performance che fa della sfrenata creatività il suo epicentro.