venerdì 26 luglio 2013

La Medea di De Rosa, un’anima allo specchio



L’allegria di un matrimonio è bruscamente interrotta da una donna vestita di nero. Gli invitati si spogliano dei loro abiti e si stendono in terra tra cuscini, orinali e sgabelli. Non è solo il dormitorio di un manicomio, è una condizione della mente in cui i fantasmi prendono di continuo vita. In “Medea-il sogno”, la riscrittura del capolavoro euripideo da parte del regista Antonello De Rosa proposta a Salerno al Complesso di Santa Sofia, è l’anima buia della principessa della Colchide il vero palcoscenico. Donna, maga, straniera: la protagonista è la diversità per antonomasia, una diversità che si sconta con l’emarginazione di cui l’ospedale psichiatrico è la massima espressione. Quando però la mente si spinge oltre tutti i limiti, diventa ostaggio di se stessa. I compagni di reclusione (Marianna Boffardi, Martina Bruno, Mirella Costabile, Lucia D’Aiutolo, Cesare D’Arco, Gerardo De Luca, Rossella De Martino, Claudia Di Cresce, Lucia Falciano, Gina Ferri, Bruna Fontana, Simona Fredella, Daniela Guercio, Enrica Lipilini, Camilla La Corte, Carla Lordi, Mary Mazziotti, Sonia Mingo, Giusy Mitrano, Umberto Notini, Caterina Salerno, Valeria Santoro, Pietro Sellitto, Vittorio Stasi, Alessandro Tedesco, Gerardo Trezza, Silvana Vitale, Veronica e Francesco Vallone) diventano di volta in volta carnefici e immagini di Giasone, Creonte, Creusa, della stessa Medea (un’appassionata Patrizia Capacchione). La donna ripudiata è al tempo stesso oggetto di persecuzione e di identificazione, perché tutti i personaggi riflettono lo stesso tormento e desiderio. Sono se stessi e altro in un continuo gioco di specchi. L’unica figura che non a caso rimane uguale a se stessa, oltre alla sua protetta, è la nutrice (una Margherita Rago pienamente consapevole del proprio ruolo), una sorta di super-io che cerca di tenere a freno le tensioni incarnate da chi l’attornia. È lei a interrompere con violenza le nozze di Medea all’inizio della rappresentazione, perché da esse non verrà che male. Ma esiste una fatalità delle emozioni. In un accorto gioco di simmetrie e contrasti (i letti di Creusa e Medea uno di fronte all’altro, perché entrambe prede di Giasone; la lampadina sfiorata a ricordo di una gloria ormai persa; gli uomini che si avventano sull’assassina al pari delle donne che attaccano l’”eroe” greco, il telo nero che inghiotte in una luce sanguigna il delitto dei figli per esorcizzare invano ciò che non si cancella), Medea si risveglia e si appresta a celebrare le sue nozze. Eros e Thanatos continuano a inseguirsi, per sempre, nello stesso rituale malato.

domenica 14 luglio 2013

Successo a Salerno per “L’avara vedova”



Guai a rinfacciarle la sua taccagneria o a mostrarle in qualche modo lealtà: vi trovereste di fronte una furia, con irresistibili effetti comici. In “L’avara vedova”, la rivisitazione in napoletano dell’”Avaro” di Molière andata in scena al Complesso di Santa Sofia a Salerno, il regista Antonello De Rosa ha optato per un rapporto giocoso con la celebre commedia, divenuta di fatto poco più di un pretesto per la performance di un affiatato cast. A dominare la scena nei panni della vedova di Arpagone è Giovanni Pisacane: l’interpretazione en travesti strizza l’occhio all’universalità dei vizi umani, sempre deleteri al di là del sesso di chi li esercita. Il gusto della battuta salace e la recitazione buffamente sopra le righe coinvolgono il pubblico nella inesorabile riscossa ai danni della protagonista, così felicemente rinchiusa nella propria aridità da essere distante anche da un punto di vista cromatico dalla due coppie di giovani desiderose di convolare a liete nozze (Simona Fredella, Rossella De Martino, Fiorenzo Pierro, Nicola Palladino) che, in sgargianti abiti che ricordano la moda hippie, difendono il proprio amore sulle note della colonna sonora del “Tempo delle mele” in una mescolanza di richiami e allusioni coerenti con la dimensione ludica dello spettacolo. Al brio della narrazione contribuiscono Alessandro Tedesco (un’Onoria materna e accattivante), Gina Ferri (saggia e benevola madre dei due ragazzi) e Tonia Filomena (omaggio vivente alla donna ruffiana).

giovedì 11 luglio 2013

La vita al guinzaglio del “Soldato Woyzeck”



La virtù? Roba da signori, da persone tranquillamente inserite nel sistema, non certo alla portata di un proletario che deve quasi chiedere scusa di essere vivo. Crudele come una rasoiata, il “Soldato Woyzeck” diretto e interpretato da Monica Maiorino secondo il libero adattamento di di Aniello Nigro dell’opera di Buchner, è stato applaudito al Complesso di Santa Sofia a Salerno nel corso della IV edizione de “Il gioco serio del teatro”, la rassegna curata da Antonello De Rosa. L’umiliato e offeso protagonista (un Aldo De Martino che è perfetta immagine della fatica di vivere) non è semplicemente la nota stonata della società, ma riflesso della sua tendenza a reggere al guinzaglio le vite altrui, che sia il militare compiaciuto della sua arrogante virilità (Geremia Longobardo), il medico perso nelle sue opprimenti e fatue analisi (Eduardo Ricciardelli) o la moglie di Woyzeck, oggetto di desiderio (imprigionata in un lungo scialle che ne blocca i movimenti), ma mai vera padrona della sua esistenza. Nell’assecondare il carattere frammentario dell’opera e la fragilità espressa dalla figura principale, l’allestimento si basa su uno scambio di piani temporali in cui i comprimari si mostrano spesso come ombre dietro uno schermo (divenendo così a loro volta stati d’animo mai pacificati dell’uomo) e su di un simbolismo di grande immediatezza (il baule in cui si trova il figlio del soldato, sua unica ricchezza; il cappio attorno al suo collo; i commilitoni presentati come fantocci). La natura bruta ha diritto di essere se stessa, la vittima del sistema no. E l’alba della vera liberazione resta il sogno di un morente.

Marina Abramovic, quando il corpo diventa arte



Il lavoro di Marina Abramovic si può definire come una spiazzante drammatizzazione del corpo. Attraverso la sua persona, l’artista montenegrina rivela le dinamiche sotterranee di un contesto, costringe chi l’osserva a far parte di un processo iniziatico in cui il rimosso, le pulsioni scomode, le esigenze taciute ritrovano vita. Nel film di Matthew Akers  “Marina Abramovic. The artist is present”, proiettato alla Galleria Verrengia di Salerno al 54° appuntamento con il progetto di Stefania Zuliani “Arte di sera”, nell’ambito dell’iniziativa della Fondazione Menna Extra Moenia, dove si narra il il backstage della retrospettiva dedicatale nel 2010 presso il Moma, la protagonista rimane su una sedia osservando silenziosamente i visitatori seduti uno alla volta dinanzi a lei per ben 716 ore. Al grado zero dell’azione, il corpo diventa palcoscenico del suo spettatore, lo accoglie in una dimensione fuori dal tempo, inducendolo a riconoscersi nella donna che pazientemente lo pone al centro di tutto, percependo senza filtri il potenziale espressivo di un dialogo muto. I confini tra dentro e fuori, tra oggetto e soggetto tendono lentamente ad assottigliarsi. E in quel silenzio la soggettività non è forse mai stata così libera.

domenica 7 luglio 2013

Guerra e desiderio in “Attesa” di Antonio Grimaldi



La guerra è mossa contro le anime, non solo contro i corpi, ed è una strada accidentata ricostruire il proprio immaginario. In “Attesa”, lo spettacolo da lui diretto con successo presso il Teatro del Giullare di Salerno, Antonio Grimaldi ha chiesto e ottenuto molto dal suo cast (Annarita Vitolo, Gabriella Orilia, Cristina Milito Pagliaro, Massimo Villani, Luciano Dell’Aglio), affidando quasi esclusivamente al gesto e al movimento di danza la narrazione, per recuperare alla dimensione corporea la sua centralità assoluta. Una donna è costretta ad accettare la partenza per il fronte del suo uomo e a misurarsi con un dolore straniante (l’oltraggio dell’invasore, i nuovi gelidi e beffardi proprietari della sua casa) fino alla faticosa riconciliazione. I testi e la voce fuori campo, che tratteggia atmosfere e desideri, sono di Alfonso Tramontano Guerritore, mentre la drammaturgia di Grimaldi sceglie una linea fortemente evocativa. L’aggressione subita dalla sposa (il bianco del suo vestito è davvero il colore dell’attesa, lo spazio da riempire di pensieri e sensazioni) è simboleggiata da una figura che avanza lentamente in scena con le movenze di un ragno, rovesciata all’indietro, l’unica luce puntata sul suo volto demoniaco (la brutalità abdica a tutto ciò che è umano), che, quasi al rallentatore, getta in terra oggetti e mobili, mentre la donna strofina forsennatamente il suo corpo come se qualcosa di malsano le aggredisse la pelle. La violenza ha molti aspetti: l’aridità dell’infermiera che dovrebbe soccorrerla, la pochezza dei colti borghesi che scacciano una figura angelica, proiezione di un’ansia di pace, la rimozione delle ferite del conflitto attraverso l’apparizione in scena di un cantante. Tutti gli attori indossano le maschere di Angelo Russo e Bonaventura Girodano, non solo per rendere universale la rappresentazione, ma perché la maschera identifica, isola, inchioda, concretizza la tirannia del ruolo che tutti assumono fino a divenire la propria essenza, come mostra il fedele servitore del protagonista che non possiede solo l’immagine, ma anche gli atteggiamenti del cane. Nel congedarsi da ciò che è loro familiare perché nulla può più essere come prima, i protagonisti lasciano il campo a una donna e a un uomo mascherati da suini, pronti forse a essere carne da macello per il prossimo conflitto o semplicemente schiavi delle loro urgenze più immediate. Lui abbandona il capo sulla tavola, come a sognare altri desideri, altre vite, altre attese. 

“Ring”, la scena interroga se stessa



La parola vuole rigenerarsi lontano da ogni costrizione scenica. Ma “Il potere vuole che i corpi scompaiano e che le parole ci vengano imposte”. Come ricomporre il dissidio tra palcoscenico e linguaggio in un mondo a cui non restano che le macerie? Sulla meta della scena s’interroga “Ring”, lo spettacolo tratto dall’opera di Andrea Manzi e diretto da Pasquale De Cristofaro presso il Complesso di Santa Sofia a Salerno nell’ambito della rassegna di Antonello De Rosa “Il gioco serio del teatro”. L’allestimento è sospeso tra la struttura dell’exemplum medievale (di qui il sistematico ricorso alla declamazione) e lo psicodramma: le figure abdicano alla condizione di personaggi e rappresentano la Poesia, il Teatro, l’Anima, l’Attesa, il precario equilibrio tra i livelli di lettura del reale (trampolieri e danzatrici). Assediati dal vuoto di senso, il Poeta e l’Attore sono rinchiusi in un ospedale psichiatrico mentre alle loro spalle compaiono stralci dell’Amleto di Leo de Berardinis e del Pinocchio di Carmelo Bene e di Totò (la menzogna che sul palco ha il crisma della verità), i padri che non si vuole uccidere come in ogni rito di passaggio, ma che sono desiderati e rimpianti. Da emarginati sperduti e avversari, i protagonisti uniscono le forze nel dar voce al dolore degli extracomunitari in cui rivivono gli ultimi di tutte le epoche precedenti. Emergendo da quello che è il buio dell’oblio e dell’oppressione, il simbolo dei diseredati, cicondato da un’aura cristologica, passa sulle sue membra della terra, ribadendo il legame ancestrale tra il dramma di ogni uomo e i suoi simili. “Ring” è il racconto di un’ostinazione che combatte contro ogni fallimento: il bisogno assoluto del corpo e della parola di fondersi, restituendo alla sofferenza la sua dignità conoscitiva.