mercoledì 29 aprile 2015

“Patres”, storia di viaggi e attese



“Gira e rigira, sempre qua si ritorna”. Ha la sicurezza di un oracolo il ragazzo seduto in prossimità della battigia. La sua cecità, il cane Argo, l’attesa del padre rimandano immediatamente a Omero, ma le storie che si narrano in questo microcosmo mirano a esorcizzare ciò che si ostina a riaffiorare. Applaudito presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, “Patres”, scritto dal regista Saverio Tavano, ha aperto GEOgrafie, la rassegna ideata e diretta da Vincenzo Albano dedicata al meglio che la scena calabrese possa offrire. C’è molto da scoprire in questa storia apparentemente semplice (attendere un genitore che non fa che ripartire). La fune che lega a un piede il giovane (Gianluca Vetromilo, che crea subito empatia con il pubblico con la sua tenerezza disarmante e mai innocua) è un modo per proteggerlo, secondo il suo Ulisse senza gloria (Dario Natale, che dà vita a un personaggio dall’affascinante ambiguità). È tuttavia anche un modo per confinare lontano dal proprio maschio vigore la prova evidente del tempo che passa e una debolezza mal sopportata da chi celebra solo il proprio egoismo. Al suo ingresso sul palco, l’uomo danza sulle note di una musica balcanica, perché ogni viaggio mescola coordinate e suggestioni nuove, e compie flessioni per ribadire la sua instancabile energia. La corda è tuttavia anche immagine di un vincolo che non vuole essere infranto: quello con la fanciullezza, di cui è segno la nave giocattolo, simbolo tra l’altro della sostanziale piccolezza umana, e con una natura da vivere senza filtri (l’illusione di questo nuovo Telemaco di percepire i colori solo allungando le mani, perché non occorrono gli occhi per sentirsi parte del tutto). Padre e figlio si rivelano complici, antagonisti, lontani e vicinissimi come nell’ironica iniziazione sessuale con una bambola gonfiabile che si lanciano divertiti come due bambini. L’adulto, sedotto dagli inviti di uno zio a mollare tutto, racconta per isolare il figlio nella sua condizione, per soffocare il disagio di una presenza puntualmente tradita. Ed è infatti un tradimento a emergere tra le parole di un vernacolo ben distante da qualunque dimensione folkloristica e necessario nella sua ruvida e musicale concretezza. È ormai definitivamente compromesso il legame con il mare – e dunque, con la vita- verso cui si proclama amore e rispetto. Si allude a morti e menomazioni legate a una nave mefitica, sulla quale forse il padre stesso è stato imbarcato, e si fa strada il sospetto che la cecità sia conseguenza di un disastro che questi non ha saputo o potuto impedire. Si arriva allo scontro, ma chi genera e chi è generato sono le due stagioni dello stesso individuo: non possono essere separati. Il cieco lasciato a dondolarsi su una sedia mentre si immagina timoniere, prima del nuovo abbandono, è lo struggente tentativo di seppellire nel sogno il dolore della perdita. Ma tanto, “sempre qua si ritorna”. Non si può sfuggire né alla mente né al passato. Per quanto il viaggio non abbia più né bussole né approdi, si deve tornare dove un’identità dispersa ha iniziato a desiderare ciò che le resta precluso.

giovedì 2 aprile 2015

“Il chiodo fisso”, la feroce ironia dell’ossessione



Che le luci del palco si accendano su una madre vestita da gallina non deve stupire. La cova e la crescita del proprio piccolo comportano la stessa cura, la stessa passione, la stessa devozione. E niente e nessuno deve intromettersi in questo perfetto equilibrio. Accolto con entusiasmo presso il Piccolo Teatro del Giullare, “Il chiodo fisso” di Manlio Santanelli conferma la vocazione del regista Antonio Grimaldi all’esasperazione giocosa (e dunque di immediata presa) delle componenti grottesche di un testo che, nel suo amore per la concretezza, tratteggia in modo implacabile un’ossessione. Non è certo un’impresa da mammole difendere il frutto del proprio ventre: suoni e punteggi da videogioco ne sottolineano comicamente la dimensione eroica. Le difficoltà sono infinite. Dal carrozzino azzurro al fianco della genitrice uscirà un giovane allontanato da scuola, sport, divertimento, ragazze? Ed eco che la protagonista si trasforma in cultrice dello sport, frequentatrice di discoteche, entraineuse, portabandiera della Vergine contro la tirannia del servizio militare, pur di impedire al suo “ranocchietto” anche solo di immaginare uno spazio alternativo a quello della propria casa. Anna Rita Vitolo dà prova di straordinaria versatilità nell’illustrare la folle tenacia del possesso, mentre la distanza tra chi osserva e l’assurdità del gioco si assottiglia attraverso il sarcasmo (“Je t’aime, moi non plus” come colonna sonora dell’alcova domestica, per esempio). L’ottusità di chi non concepisce altro da sé si manifesta anche nella straniante trattativa intavolata con una spettatrice per assicurare un costante sostegno sessuale al prediletto così da evitare  distrazioni (un’immigrata, ovvio: cos’altro aspettarsi da quel tipo di donna?) salvo tornare sui propri passi, temendo che il rimedio sia più pericoloso del male. È del resto proprio di una mentalità asfittica come quella borghese escludere dal proprio orizzonte chiunque osi spingere lo sguardo verso il proprio orticello. Ma eco il re di tutti gli ostacoli: l’Amore. Il matrimonio. Magari proprio con la compagna di banco che si era fatto di tutto per allontanare: uno scacco che mostra come la sessualità del rampollo sia rimasta alla fase pre-adulta. Bisogna dunque darci, alla lettera, un taglio. Vestita da Wonder Woman, data la grandiosità della prova, ecco che la nostra antieroina si avvicina al bimbo con un paio di forbici. La castrazione riflette la preclusione della crescita che si ha quando non esiste altro che il proprio oggetto del desiderio. E mentre si ride non si può non pensare che un mostro sia la deriva che può attendere chiunque.

mercoledì 1 aprile 2015

“Sigmund & Carlo” al Torino Fringe Festival



L’uomo che si avvicina guardingo a una panchina disinfettandola con tutti i crismi non si può certo considerare un modello di raziocinio. E che dire del buffo personaggio che  si siede accanto a lui con aria ancora più circospetta? Dietro questa stravaganza però si nascondono nientemeno che Freud e Marx. Fondato sul gusto della battuta brillante e sulla derisione del luogo comune, Sigmund & Carlo”  è lo spettacolo di Libera Scena Ensemble che sarà in scena a maggio al Torino Fringe Festival. Niko Mucci, regista e interprete dell’autore del “Capitale”,  gareggia nella capacità di coinvolgere il pubblico con Roberto Cardone, comico concentrato di nevrosi inutilmente celate sotto il perbenismo. Queste figure irrimediabilmente ai margini si presentano in mutande, coperte solo da un impermeabile. Spogliati infatti del proprio valore e arruolati loro malgrado in un’omologazione sterile, appaiono infiltrati in un mondo ostile da cui è inutile difendersi (ricorrendo, per esempio, alla mania dell’igiene) e che non a caso si manifesta solo attraverso suoni caotici, come i clacson, data la sua inconsistenza. E quando pensano di essere osservati, si improvvisano bimbi troppo cresciuti, predicatori, clown: il pensiero è scomodo, molto meglio nasconderlo dietro una maschera. Il deserto delle idee e delle ideologie esaspera il contrasto e l’affinità tra i due. Se sono distanti sulle cause della nevrosi (l’evoluzione sociale, strepita Marx; la biografia sessuale, ribatte Freud), Carlo non resiste alla tentazione di farsi analizzare da Sigmund che trova in lui un coinfidente. Chi osserva è all’inizio tratto in inganno: possibile che gli autori più citati nei dibattiti si siano ridotti a guardoni dinanzi a una scuola femminile? Il colpo di scena finale mostrerà invece come i nostri eroi abbiano il coraggio di una scelta etica di fortissimo impatto. Chi guarda più lontano vuole distruggere ciò che umilia e schiavizza il pensiero, ma sottrarsi al peso del nulla può essere impresa davvero ardua. E il confine tra comicità e disperazione diventa terribilmente sottile.

“Sigmund & Carlo”, attacco al potere



L’uomo che si avvicina guardingo a una panchina disinfettandola con tutti i crismi non si può certo considerare un modello di raziocinio. E che dire del buffo personaggio che  si siede accanto a lui con aria ancora più circospetta? Dietro questa stravaganza però si nascondono nientemeno che Freud e Marx. Fondato sul gusto della battuta brillante e sulla derisione del luogo comune, Sigmund & Carlo”  è lo spettacolo di Libera Scena Ensemble applaudito al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno. Niko Mucci, regista e interprete dell’autore del “Capitale”,  gareggia nella capacità di coinvolgere il pubblico con Roberto Cardone, comico concentrato di nevrosi inutilmente celate sotto il perbenismo. Queste figure irrimediabilmente ai margini si presentano in mutande, coperte solo da un impermeabile. Spogliati infatti del proprio valore e arruolati loro malgrado in un’omologazione sterile, appaiono infiltrati in un mondo ostile da cui è inutile difendersi (ricorrendo, per esempio, alla mania dell’igiene) e che non a caso si manifesta solo attraverso suoni caotici, come i clacson, data la sua inconsistenza. E quando pensano di essere osservati, si improvvisano bimbi troppo cresciuti, predicatori, clown: il pensiero è scomodo, molto meglio nasconderlo dietro una maschera. Il deserto delle idee e delle ideologie esaspera il contrasto e l’affinità tra i due. Se sono distanti sulle cause della nevrosi (l’evoluzione sociale, strepita Marx; la biografia sessuale, ribatte Freud), Carlo non resiste alla tentazione di farsi analizzare da Sigmund che trova in lui un coinfidente. Chi osserva è all’inizio tratto in inganno: possibile che gli autori più citati nei dibattiti si siano ridotti a guardoni dinanzi a una scuola femminile? Ma ecco il capovolgimento: i calibri a cui si riferiscono ammiccanti sono quelli delle pistole che puntano contro i politici all’uscita dall’istituto, dove hanno tenuto inutili discorsi. Il buio inghiotte i protagonisti nel momento in cui si scagliano contro i loro obiettivi. Chi guarda più lontano vuole distruggere ciò che umilia e schiavizza il pensiero, ma sottrarsi al peso del nulla può essere impresa davvero ardua. E il confine tra comicità e disperazione diventa terribilmente sottile.