lunedì 29 febbraio 2016

Il “Don Giovanni” ibrido di Alessandro Preziosi



Il sano veleno di Molière? Meglio la lettura superficiale ed effettistica di un personaggio che ha più sfaccettature di quante ne sappiano leggere critici e artisti. Su questo solco si è mosso Alessandro Preziosi, protagonista e regista del “Don Giovanni” applaudito calorosamente al Teatro Verdi di Salerno. Lo spettacolo rappresenta un ibrido irrisolto tra tiepido omaggio all’autore e giocoso desiderio di rielaborare situazioni e figure all’insegna della leggerezza. Se Preziosi conosce i tempi comici ed esalta con coerenza la spregiudicatezza del libertino (un momento felice è l’immedesimazione nel vecchio padre, il cui biasimo è lentamente svuotato di ogni credibilità), banalizza al tempo stesso l’opera, rendendo gli spunti polemici semplici dati accessori della dimensione erotomane. La fame di corpi è fame di conoscenza e dunque di libertà. È questo che scava distanze siderali tra Don Giovanni e la società ed è questo che non emerge nella scelta del regista, che lo tramuta in un infantile voltagabbana a senso unico. Distendersi su Donna Elvira che vuole convertirlo, imitare il pianto di un bimbo dinanzi alle critiche, la risata insensata della cameriera che dovrebbe consolarlo rientrano in questa prospettiva dal fiato corto. Nel momento in cui vuole porre in luce l’unicità del seduttore, l’interprete eccede nell’autocompiacimento e cade vittima della propria vanità. Il contesto scenico risente dell’approccio epidermico al testo. I lenti movimenti dei duelli esprimono l’ossequio alla forma, le videoproiezioni mostrano un fumo colorato per narrare dissidio e seduzione, l’unico portico che appare durante l’assedio di Donna Elvira allude alla sua ossessione senza via d’uscita. Nel prendere alla lettera suggestioni e motivi, questi espedienti hanno meno consistenza del fumo stesso. Anche la statua del Commendatore, un totem rigorosamente creato al computer, è un’ambigua trovata. Nulla è più antico della paura di morire e al tempo stesso si ha la sensazione di essere in un videogioco. Mossa finale, una statua che riproduce le fattezze del dissoluto sostituisce quella della sua vittima: l’egocentrismo produce conseguenze imbarazzanti. Ottima la prova di Nando Paone nei panni di Sganarello, un attore perfettamente consapevole delle proprie risorse, in accorto equilibrio tra ansia morale e piaggeria e capace di arricchire di nuove sfumature in ogni circostanza la sua indole sospesa tra opportunismo e pietà. I classici non sono intoccabili e niente impedisce di percorrere la via più semplice. Peccato che, soprattutto a teatro, sia di rado la migliore.

domenica 28 febbraio 2016

“Qualcosa rimane”, la scrittura tra inganno e verità



Bukowski diceva che lo scrittore è come una puttana: lo usi e poi te ne scordi. Ma solo chi scrive può conoscere (e riconoscere) il respiro di una storia che è solo sua, che è nata dalle sue viscere e nessun ladro, per quanto lavori di fino, può contraffare un legame simile. Monica Guerritore costruisce con dolente e sagace intensità la protagonista di “Qualcosa rimane”, lo spettacolo da lei diretto presso il Teatro Verdi. L’opera di Donald Margulies nella traduzione di Enrico Luttman affronta, attraverso i personaggi di Ruth, scrittrice di successo, e dell’allieva Lisa (una Alice Spisa che veglia costantemente sulla credibilità del suo ruolo), la costruzione del mondo narrativo, il passato che torna a innervare il presente, l’ambizione e la necessità di non tradire né tradirsi. Tutto si svolge nella casa dell’artista, con cui quest’ultima tende a identificarsi (lì sono le tracce dell’ansia di vivere propria della beat generation e dell’amore molesto per Delmore Schwartz, il genio che l’ha consumata e spinta a scrivere) perché la ragione di ogni scrittura si cerca nel proprio intimo, tra ciò che è familiare e la scena è anche il ventre in cui prendono forma lo stile e la personalità della giovane figlia/sorella/amante/rivale. Le due restano distanti nella concezione del tempo: è la scuola presso cui impariamo secondo Ruth, il segreto di ogni autocoscienza, mentre secondo Lisa è la distanza dal successo che va colmata con la pazienza e l’inganno. Sarà proprio il tempo a beffarle entrambe. La donna proverà la gioia e la frustrazione di aver rivissuto nella sua prediletta l’emozione del successo, per poi scoprire di aver sprecato energie dinanzi a un’egoista. La ragazza, che porrà senza scrupoli al centro del suo romanzo il vissuto di Ruth, sarà inchiodata alla sua “brutta imitazione” e anche le sue ore la condurranno a un vicolo cieco. Quando Lisa legge stralci del suo libro, lo fa a sipario chiuso: il pubblico deve ignorare il raggiro che il trionfo nasconde. Ruth avanza dal fondo della sala per smascherarla, non soltanto perché i riflettori non sono più puntati su di lei, ma perché ogni redde rationem nasce dal buio della coscienza. Nel vendersi al pubblico, la nuova scrittrice non è riuscita nel suo intento. Il tempo di una donna  non potrà mai essere quello di un’altra. La neve che cade nell’appartamento di Ruth, ormai morta, ricorda che sono le parole-che accompagnano fuori campo l’azione sul palco come un risvegliarsi dell’anima- a dare senso allo spazio e ai corpi che  lo attraversano. È la loro fragile eco a rimanere.

mercoledì 10 febbraio 2016

“Mutaverso”, “Mari” apre con successo la stagione



A volte bisogna attraversare un oceano per raggiungere chi è a un passo da noi. Al Teatro del Giullare di Salerno un pubblico entusiasta ha accolto “Mari”, lo spettacolo diretto e interpretato da Tino Caspanello al fianco di Cinzia Muscolino ad apertura della prima stagione di Mutaverso, che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico. Dopo una riflessione sulla drammaturgia contemporanea, che ha coinvolto Franco Cappuccio (Scene contemporanee), Maximilian La Monica (Editoria e spettacolo) e il critico Vincenza Di Vita, approdata alla lettura del suo “Kyrie”, affascinante cortocircuito temporale ed emotivo a due voci, Caspanello ha creato una messinscena nuda (una lenza, un secchio, lo sciabordare delle onde) in cui l’essenzialità diviene gravida, aprendo all’infinito ciò che è limitato. Siamo a quello che lo stesso autore ha indicato come un “un teatro a bassa definizione”: un uomo preferisce la solitudine del pescatore sulla battigia mentre la sua donna lo vorrebbe a casa. Lei si avvicina, si allontana, fa per andarsene, resta con un pretesto; pur rimanendo nei pressi dell’acqua, anche lui è di volta in volta vicino e lontano, coinvolto dal suo amore pudico o testardamente concentrato su di sé. Il dialogo è scarno, come se alle parole bastasse essere se stesse o non potessero esprimere altro, ma poi diventano ascolto e rivelazione di quel che il silenzio nasconde. In un paziente lavoro di sottrazione, ciò che si percepisce nella carne e nella mente si lascia lambire da quello che l’accoglie e la sovrasta. La donna è la terra, lo scorrere lento e definibile delle ore, l’attesa di una felicità, una stabilità che vuole accogliere; si identifica con un rifugio a cui tornare. L’uomo sceglie l’eterno presente di chi si misura con ciò che è senza limiti (il mare che è immagine antica e nuova della vita, dell’assoluto, dell’incatalogabile). Ogni fragilità trova la sua essenza solo specchiandosi nella forza destinata a sopravviverle e solo nel silenzio della notte quel che ha fine e quel che non ne ha possono respirarsi, riconoscersi. I due sono a loro volta immagine della distesa acquatica, perchè ondeggiano tra vincolo e libertà, tra il bisogno di fondersi e la distanza. Quando la compagna dice di aver paura del mare di notte perché non sa dove comincia, lui le indica nella riva il punto di inizio. Dove corpi e parole giungono all’ultimo confine, il prima e il dopo diventano parole inutili. L’eterno accarezza la vita come fanno le onde con la sabbia. E quando le mani intrecciate dei due si immergono nell’acqua (la prima volta per sconfiggere ogni timore, la seconda per sentirsi parte di quel mondo liquido in cui tutto può ancora finire e ricominciare), una lenta dissolvenza li fa scomparire. Il buio adesso non incute spavento. L’acqua e la terra non possono fare a meno l’una dell’altra. È in quel momento che ci si riscopre e  ci si comprende, quando si  volge lo sguardo all’indefinibile, a quel che non conosce tempo e spazio.

Claudia Gerini e il peso della leggerezza



Il palcoscenico è implacabile. Anche dare tutto a volte non basta. È il caso di “Storie di Claudia”, lo spettacolo diretto da Giampiero Solari al Teatro Verdi di Salerno in cui Claudia Gerini, che ne è coautrice, rivive il suo approccio al mondo dell’arte dagli anni dell’adolescenza ai recenti successi. La curiosità verso la recitazione e il cinema accesa da una sorta di spirito guida, la signorina Maria, conduce la protagonista dal provino di Non è la Rai alla notorietà sul grande schermo. E lei non si risparmia. Diviene Carmen Miranda, Marlene Dietrich, la Monica Vitti di Polvere di stelle, la fanciulla del programma di Boncompagni, compie acrobazie appesa a un drappo rosso mentre risuona la “Traviata” (del resto chi si dedica all’arte è un equilibrista che ondeggia tra linguaggi diversi), ironizza sulla propria condizione di star, mentre fondali rimandano animazioni computerizzate che vorrebbero  dare concretezza a un contesto e risultano un inutile orpello. Ecco però che, a dispetto della generosa performance della Gerini, la leggerezza di chi può vivere tutte le vite che vuole diventa cemento. La messinscena lascia la sensazione di una corsa a perdifiato restando sul posto. Colpa di testi che sono un inno alla banalità (davvero raro trovare un linguaggio così privo di ogni colore) e di personaggi che risultano più labili della “gloria” del red carpet. Le donne che l’attrice interpreta con la precisione del compitino ben svolto non hanno anima, mancano di capacità di coinvolgimento, non sanno orchestrare quel gioco sottile, proprio del proscenio, che rende la menzogna più vera del vero. Se non si ha la capacità di fare una scommessa anche spietata con se stessi,  trasformando la scena in un archivio di anime, non c’è impegno o presunzione che tenga.

martedì 2 febbraio 2016

“Porno teo kolossal”, l’orrore e la rinascita



Quando tutto crolla nel più crudele dei modi, non vi è che una possibilità: ricordarsi che non esiste la fine. Concepito per Totò e, dopo la sua morte, per Eduardo, “Porno teo kolossal” è l’ultimo copione pasoliniano che Anna Bonaiuto ha fatto rivivere con la sua voce calda e duttile nell’essenziale regia di Francesco Saponaro presso il Teatro Diana di Salerno. Uno scrittoio, una sedia, un leggio risultano più che sufficienti: è la parola che deve creare, smascherare, sconvolgere e sedurre. Sono infatti le parole dell’autore de “Le voci di dentro” e di Pasolini a risuonare per un attimo fuori campo prima che l’interprete guidi il pubblico in quel viaggio immerso nell’incubo e nel sogno che il re mago Eduardo compie con Ninetto Davoli per giungere al Messia. La cometa che li guida non ha nulla di salvifico. Getta al contrario luce su tappe di un orrore che assume nomi antichi (Sodoma-Roma, Gomorra-Milano, Numanzia-Parigi) per mostrare come l’uomo non rinunci alla sua ansia di distruzione in ogni momento e in ogni luogo. E in ogni momento e in ogni luogo ciò che esula dalla norma, il non programmabile, ovvero l’anarchia del desiderio,scatena la violenza più brutale: l’amore eterosessuale punito a Sodoma, quello omosessuale colpito a Gomorra. Come già in “Salò”, tutto è sovrasposto, cannibalizzato dagli sguardi prima ancora che dai corpi: il sangue e lo stupro devono divenire spettacolo in una sorta di antipedagogia che annichilisca ogni senso di solidarietà. Né gli intellettuali appaiono capaci di offrire vie d’uscita, dato che proprio il poeta che istiga al suicidio il popolo di Numanzia per non cadere nelle mani dei fascisti si vende proprio a loro che lo uccideranno per un inutile dissapore, non certo per salvare una qualche libertà. La distruzione delle tre città, più che alludere a una punizione divina, è naturale conseguenza di una civiltà che ha scelto la morte in tutte le sue forme. “Porno teo kolossal” declina la graffiante desolazione del deserto in cui fiorisce, malgrado tutto, la vita. Giunti ad Ur, dove il tempo sembra ricongiungersi al suo inizio, i due scoprono che la grotta del bambino è ormai vuota, il Messia è morto e un bimbo vende oggetti che lo ricordano (il capitalismo mercifica il sacro, lo riduce a scheletro beffardo) e, stroncato dal dolore, Eduardo si ritrova in paradiso sotto la guida dell’angelo Ninetto: Pasolini ha sempre creduto che gli ultimi fossero destinatari e messaggeri di un verbo nuovo, di uno sguardo puro. Anche il paradiso tuttavia è vuoto (la minzione del vecchio è solo l’ultimo atto di una dissacrazione di allucinante coerenza), ma quel grumo improbabile che è il mondo comincia ad emettere suoni, lontani canti di riscatto. Si può solo attendere: forse il nulla attende di essere riempito di un nuovo slancio vitale. Forse, alla fine del buio, ci sarà l’unica resurrezione che conti, quella della propria umanità.