lunedì 30 gennaio 2017

"Slot machine", la fine del gioco


Vallo a spiegare ai “commessi della vita”, a quelli che sono tutto ordine e responsabilità e liquidano la faccenda come un trionfo della sfortuna. Se si vuole ogni cosa, non ci si può accontentare di un denaro che odora “di concime e galline”, guadagnato nei campi: per perderne tanto, ne occorre tantissimo. Dostoevskij, che attraverso “Il giocatore” conosceva bene questo inferno, avrebbe amato “Slot Machine”, lo spettacolo, applaudito presso la Sala Pasolini di Salerno nell’ambito del programma di Casa del Contemporaneo, ideato e diretto da Marco Martinelli e prodotto dal Teatro delle Albe/Ravenna Teatro. Alessandro Argnani costruisce con dedizione generosa un personaggio difficile da dimenticare, l’uomo che da un fosso in cui è stato precipitato dai creditori cerca di spiegare la sua ossessione per il gioco: il continuo sforzo di spillare quattrini, le relazioni bruciate, il desiderio di rivalsa su chi lo guarda con superiorità, l’amore esclusivo per la slot machine, che lega  a sé in una simbiosi gelosa e cieca chi l’utilizza. Il luogo fisico è però prima di ogni cosa spazio della mente. Il buio riempito da risate e da parole fatte a pezzi in cui il protagonista si muove con una torcia all’inizio della rappresentazione con inquietante allegria fanciullesca e poi con dolente incongruenza è l’ottenebramento di un individuo che può solo prendere atto della propria schiavitù psicologica. E poiché ogni dipendenza è impossibilità di sfuggire a se stessi, gli specchi lo attorniano e uno di essi sovrasta anche la superficie su cui è disteso e da cui fa talvolta fatica ad alzarsi, che ricorda una pietra tombale e un tavolo da biliardo. Il terreno lasciato cadere su piccole piante è un modo per celebrare la propria fine e rimpianto della terra tradita, abbandonata per rincorrere una ricchezza da dissipare. Le carte lanciate in aria rimandano all’entusiasmo inebetito di chi non sa rinunciare alle proprie catene, i tentativi di interloquire rendono la solitudine ancora più impietosa. E quando è disteso e vinto, il regista, con l’atto del medico che attesta il decesso, gli pone sul viso il drappo verde che ricopriva uno degli specchi: l’azzardo è infatti tentativo di scoprire altro per poi trovarsi di fronte il proprio nulla. È questo questo in fondo che il teatro chiede a un attore, sera dopo sera: giocarsi l’anima. E perderla

martedì 24 gennaio 2017

“Ho. Me”, il fragile confine dell’assodato



Vigilare, vigilare di continuo. Gli stessi gesti (soffiare su una candela accesa nel medesimo modo per esprimere la necessità di nutrirsi, salutarsi disponendo le braccia in attente geometrie), gli stessi ritmi (la nervosa pulizia delle scarpe, l’elenco delle qualità delle balene con tono all’apparenza impersonale), addirittura lo stesso modo di comunicare ciò che realmente si pensa, schioccando la lingua sui denti o sostituendo una risata con un’onomatopea. E difendere i confini, naturalmente. Tenere ben chiuse le porte. Ma ciò che è delimitato attende solo di essere superato, violato, modificato. Attenta riflessione sull’intolleranza e la diversità, “Ho. Me” è lo spettacolo della compagnia Vernice Fresca Teatro che ha aperto con successo presso l’Auditorium centro sociale di Via Cantarella la seconda stagione di Mutaverso, la manifestazione che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico. L’allestimento, ideato da Martha Festa che è in scena con Jessica Festa, Rossella Massari, Arianna Ricciardi, si avvale della drammaturgia di Valentina Gamna e della regia di Massimiliano Foà. Le due donne che costruiscono la loro vita in base a un preciso copione sanno di doversi difendere dagli stranieri; facile pensare al dramma dei migranti, ma è proprio la categoria dell’altro a essere temuta e ripudiata. Lo spazio domestico rispecchia un contesto che vuole riconoscere solo se stesso, come mostra la vicina armata di fucile. Quando però una donna che ha perso tutto giunge dal mare attraverso una porta (dimenticata?) aperta, l’equilibrio si infrange e le protagoniste vivono la ripugnanza, il sopruso, la complicità, il bisogno di ricominciare. Le attrici sanno creare con spiazzante concretezza i meccanismi della manipolazione: la danza a cui costringono la profuga è un tentativo di modellarle l’anima attraverso il corpo e la straniera la imita con dedizione ossessiva nel tentativo di essere accolta. Il lenzuolo che copre il corpo dell’estranea nel sonno (sonno disprezzato, perché toglie tempo alla vigilanza) mira a seppellire ogni sua traccia non meno dell’elusione delle domande fondamentali (“Voi non siete come noi” “Noi chi?”.  “Siamo in guerra con voi” “Voi chi?”). Un ruolo va in pezzi tuttavia proprio dove si pretende che non sia scalfito. Per non destare sospetti, la nuova venuta è presentata come la sorella delle abitanti della casa e nella menzogna c’è la verità; sono infatti unite dalla prigionia, l’una dello sradicamento, le altre del pregiudizio. La descrizione dapprima fredda e poi accorata delle balene, animali liberi che hanno in se stessi, non in un codice, la ragione di esistere, è una presa d’atto dell’inutile pretesa di definire, incasellare, confinare in un ambito, tanto che una delle interpreti si lascerà tutto alle spalle. Le scarpe che cadono in terra al momento di abbandonare l’abitazione richiamano alla mente coloro che sono morti,ma anche le infinite strade che sarebbe stato possibile percorrere lontano da ciò che disumanizza. Le grandi scale in scena da cui osservare lo spostamento dei cetacei preannunciano l’urgenza di superare le percezioni annichilite dall’insofferenza. Su una di esse si arrampicherà “l’intrusa”, per volgere al mare che l’ha risparmiata lo sguardo di chi comprende che ascoltare i sensi e le emozioni è il primo passo per trovare in se stessi la propria casa.

lunedì 2 gennaio 2017

Successo al Giullare di Salerno per “Fragile”



Com’è difficile essere all’altezza di ciò che non ci somiglia. Ancor più difficile però è mettere a tacere la propria anima. Tre donne (in realtà quattro con l’anziana Naomi, interpretata all’unisono dalle tre attrici perché può incarnare l’esito dei percorsi precedenti) si misurano con quello che la vita pretende da loro in “Fragile” di Arnold Wesker, che Licia Amarante e Antonella Valitutti hanno diretto presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno. I ruoli richiesti all’altra metà del cielo sono spesso scomodi: la donna amorevole e premurosa che non vede oltre una serie di riti formali e che non a caso appare di spalle all’inizio dello spettacolo, dato che la forma può tranquillamente fare a meno dell’essenza (Stephanie, che Marika Mancini crea con appassionata dedizione), la madre che deve combattere con i malumori della figlia (Ruth, che ha il volto dell’ironica e tenera Bernadette Landi), la scrittrice chiamata a giustificare il suo successo (Annabelle, tratteggiata con acuto disincanto da Rosita Speciale). Nulla è tuttavia più debole delle maschere e ciò che è stato attentamente nascosto riemerge. L’abbandono del marito, attratto da un’altra, spinge Stephanie a comprendere di non averlo mai amato, divenendo di fatto estranea a se stessa per la forza dell’abitudine. La divina monella, come Ruth chiama sua figlia (Carlotta Costantino che appare con la leggerezza del sogno, perché tale è ogni ragazza per chi la genera), induce la donna a prendere atto del suo bisogno d’amore dietro l’ostentata indipendenza da ogni uomo. Annabelle deve rispondere per due volte alla stessa intervista attraverso la voce fuori campo di Antonella Valitutti: conoscere davvero è impegnativo ed è meglio restare nel solco dell’assodato. Se però in un primo momento l’autrice manifesta il suo approccio viscerale alla scrittura, come se fosse dominata dai suoi personaggi, in seguito si dice interessata esclusivamente alla fama e al potere. La cecità di un mondo incapace di comprendere è denunciata dal suo cinismo. Le protagoniste hanno tutte perso qualcosa, ma non la capacità di sentirsi vive, di ascoltarsi, di cogliere ciò che altri non vedono. La vecchia Naomi, a cui resta soltanto la telefonata di un nipote a farle compagnia, fa bene a ridere del principe azzurro: è l’idea che un miraggio possa colmare un vuoto a essere davvero fragile.

“Itaca”, il progetto di Mutaverso sotto il segno di Fassbinder



Molto più di un laboratorio:  un’esperienza di condivisione che sia totale messa in gioco. Inizia oggi presso la Chiesa di Sant’Apollonia e terminerà il 7 gennaio “Itaca/ La bottega dei ritorni”, una piccola residenza artistica che riunirà operativamente alcuni attori di Salerno e provincia, i quali prenderanno parte al laboratorio di Nerval Teatro “La Germania che ho in testa” a cura di Maurizio Lupinelli. L’iniziativa è il primo passo di Mutaverso, la stagione teatrale, giunta alla seconda edizione, che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico.  I venti interpreti coinvolti si misureranno con un testo di Fassbinder, “Sangue sul collo del gatto”, pièce del 1971 che non perde a distanza di anni la propria capacità di incendiare il concetto stesso di confine e di regola. La protagonista, Phoebe Zeitgeist, è un’aliena che vuole studiare il linguaggio degli uomini, ma nulla è più ingannevole della comunicazione e la tendenza della strana ospite a ripetere meccanicamente e all’apparenza senza senso parole e frasi porterà alla luce contraddizioni e assurdità del comportamento umano. L’ex femminista fallita, il piccolo borghese, la modella in grave regressione, l’omosessuale emancipato, per citare solo alcuni dei personaggi, confluiranno in un contesto che saprà fare a pezzi ogni rimozione. L’opera va tuttavia considerata un canovaccio che porti alla luce la specificità dei singoli percorsi degli attori, così che la comune esperienza possa dare frutti al di là di ogni intento programmatico. Sono previsti un piccolo gruppo di uditori, un diario di bordo a cura di “Scene contemporanee”, partner dell’iniziativa come Puracultura, e un docufilm che testimoni il percorso svolto.  “Quello di Itaca non pretende di essere un censimento esaustivo delle risorse artistiche legate all’ambito di Salerno e provincia- ricorda Albano- né tantomeno si intende fare riferimento alla retorica del nemo propheta in patria. Maurizio Lupinelli è un capofamiglia ideale che sa creare un gruppo in un ambito che vuole dare vita a relazioni al di là di ogni frammentarietà. Ecco perché il pubblico può assistere a ogni fase di questo itinerario e il 7 gennaio sarà un momento di restituzione alla platea di quanto compiuto. Credo alle affinità, non alla rete. Il dialogo tra individui diversi, sia pur accomunati dalla provenienza geografica, è il punto di partenza di una costruttiva relazione con la scena e ciò che la circonda”.