martedì 18 aprile 2017

"Il paradiso degli idioti", l'arte in un mondo di plastica



L’arte, l’identità, quel miraggio che è la memoria dei padri: non esiste approdo che possa dirsi sicuro né contraddizioni che si possano sanare. E l’individuo, nel suo ruolo umano e  creativo, si trova esposto a un’esistenza sottovuoto, ovvero di plastica. Proprio quest’ultima è un elemento chiave ne “Il paradiso degli idioti”, lo spettacolo interpretato da Paola Di Mitri (che ne ha curato la drammaturgia e regia) al fianco di Nicola Di Chio, Miriam Fieno, Francesco Marilungo, che ha rappresentato la nuova tappa di Mutaverso, la stagione teatrale diretta da Vincenzo Albano. Dalla plastica nasce a fatica Adamo e dello stesso materiale è la foresta alle sue spalle. In una busta plastificata si trova la mela che lo condurrà a trasgredire e la pistola destinata ad ucciderlo. La riscrittura della Genesi in cui una donna scimmia deve aprire la via a un nuovo mondo dopo l’omicidio del primo uomo, concepita da Andrea, perso nei suoi deliri, vuole rappresentare una svolta in un panorama culturale che non ha più nulla da dire: l’ironia verso una drammaturgia contemporanea ubriaca di sé, ma inefficace, percorre tutta la messinscena. Lo sforzo risulta appunto velleitario (“Il paradiso degli eroi” è impietosamente ribattezzato “Il paradiso degli idioti”), perché la convenzione che si vorrebbe superare sbarra di continuo la strada a una manifestazione espressiva autentica. Non è un caso che Adamo sia afasico: le parole sono a loro volta di plastica, incapaci di instaurare una comunicazione, come mostrano i dialoghi tra Andrea e la sorella Sonia, artista che vende statue viventi e  si oppone tenacemente alle scelte del giovane. Che partita può esserci tra mercato e fantasia? Sonia si vestirà coerentemente di buste di plastica quando, troneggiando come una divinità e un’imbonitrice, proporrà l’acquisto del fratello a sua volta mutato per un lungo attimo in statua vivente. “Ci siamo tutti rotti i coglioni dei simboli”, urla la venditrice. Che diavolo dovremmo farcene di sovrasensi e allusioni criptiche? Che vinca l’artefatto, l’omologante, ciò che può divenire moneta di scambio, tanto più che il “testamento morale” di un padre ingombrante –umano solo nella morte, come è ormai facile attendersi- è un foglio bianco. Né passato né futuro sembrano sottrarsi a una plastificazione dell’anima. Comunque la si giudichi, però, l’opera ha vita propria. Ciò che l’amante dell’arte produce si spinge oltre le sue aspettative, perché ha la forza di sopravvivergli. La donna scimmia e Adamo infatti si oppongono sistematicamente al copione scelto per loro, l’una sostituendo la sensualità alla violenza, l’altro restando legato alla genuinità degli istinti, come mostra la maschera d’asino spesso indossata che in lui rivela l’essenza, mentre nel suo creatore è vuoto orpello. E quando nel finale è proprio la figura destinata a un nuovo inizio a sparare al divano su cui i due fratelli siedono, sgonfiandolo, c’è una speranza. Cadano pure dal loro piedistallo tutti i sedicenti artisti del mondo: sarà proprio l’immaginazione, fiera di essere se stessa e altro da sé, a coprirli di ridicolo.