domenica 25 giugno 2017

"Illusioni", l'inganno chiamato vita



Guai a comunicare le proprie emozioni. La più bella dichiarazione d’amore innesca un pericoloso effetto domino in“Illusioni” di Ivan Vyrypaev, prodotto da Big Action Money su traduzione e regia di Teodoro Bonci del Bene e applaudito alla Sala Pasolini di Saleno nell’ambito di Mutaverso, la stagione teatrale che ha avuto in Vincenzo Albano il suo direttore artistico. Che i quattro interpreti (lo stesso Del Bene, Carolina Cangini, Tamara Balducci, Jacopo Trebbi) parlino inizialmente alla platea mescolati ad essa è naturale: non possiamo mai conoscere davvero la persona al nostro fianco, non sappiamo quale visione della vita metterà in scena per noi da qui a un attimo.  All’immedesimazione nei personaggi si alterna un resoconto su di loro in terza persona che mescola memorie emotive a informazioni puntualmente contraddette: entrare in un’anima è infatti arduo. Nella fase conclusiva della propria vita, due coppie meditano sulle proprie scelte. Prima di morire, Danny dice alla moglie Sandra di esserle grato per una vita trasparente all’insegna del vero legame amoroso. Sandra allora dichiara ad Albert di averlo sempre amato in silenzio. Quest’ultimo confessa alla moglie Margaretth di aver vissuto il vero amore solo nei confronti di Sandra e Margareth,nota per il suo senso dell’umorismo, rivela di essere stata per anni l’amante di Danny. Solo alla conclusione della messinscena questa affermazione è presentata come falsa (ma i dubbi restano fino alla fine). La vita, sembrano dire i quattro, è una ragnatela di sovrastrutture in cui smarrire se stessi. A questo allude Sandra quando dice che al nostro mondo manca “qualcosa di compatto”. I coniugi si voltano talora verso uno schermo pallidamente illuminato, che è il senso sfuggente che cercano di dare alla propria vita. Poiché però solo le illusioni sanno essere durature, Margareth si ucciderà. Per burlarsi del marito, si era in passato chiusa in un armadio che solo lei poteva aprire dall’interno. Allo stesso modo solo lei avrebbe potuto fare chiarezza dentro e fuori di sé, ma è sopraffatta dalla domanda, ossessivamente riproposta, se esista qualcosa che duri in eterno. La stessa domanda che Albert rivolgerà al cosmo un attimo prima di morire, capendo, tra l’altro,ormai troppo tardi, di non avere amato alto che sua moglie. Perché la vita, si sa, ha un grande senso dell’umorismo.

venerdì 23 giugno 2017

“Demoni”, l’essenza del teatro



Il frammento non si limita a riflettere il tutto. È esso stesso mondo libero di prendere corpo solo alla luce della propria logica. E la logica del teatro, da sempre, è l’empatia. Emozionante percorso tra i personaggi del romanzo di Dostoevski vissuti appunto sotto forma di frammenti, il progetto “Demoni” di Alessandra Crocco e Alessandro Miele ha coinvolto il pubblico salernitano nell’ambito di Mutaverso, la stagione teatrale diretta da Vincenzo Albano. Nel cuore del centro storico, gli interpreti si sono esibiti per uno spettatore alla volta, immediatamente immerso nell’atmosfera dell’opera, accogliendone l’universalità, dopo aver ricevuto poche, essenziali indicazioni. Alessandra Crocco è stata Marija presso Casa Sant’Angelo e Liza a Palazzo Conforti, mentre lo Stavrogin di Alessandro Miele è andato in scena presso la Chiesa di Sant’Apollonia per un gruppo di dieci spettatori a turno: scelta motivata dall’egocentrismo di quest’uomo, epicentro dell’opera e fuoco che divora chi si relazioni con lui. Ripetere per ore la medesima performance risponde al duplice scopo di esaltare l’essenza del palcoscenico (ognuno in platea vive un personalissimo rapporto con l’attore,che a sua volta vuole entrare nella mente di chi l’osserva) e di esprimere l’ossessione che imprigiona le tre figure. Marija attende il suo amato con la trepidazione di chi si consacra. Il buio della stanza, rischiarato solo dalla candela sul tavolo al suo fianco, rimanda all’esigenza di vivere unicamente per il momento dell’incontro, azzerando tutto il resto. E come lo spettatore le è dinanzi senza difese, lei lo imprigiona nei suoi occhi, narrando con lenta dolcezza come ha sognato di rivedere il suo uomo, per poi assumere uno sguardo ostile: chi le siede dinanzi non è quello che attendeva e intima di andarsene. Le ossessioni sono però destinate a dissolversi per poi risorgere. Intonare sommessamente Là ci darem la mano è desiderio di non evadere dal sogno di una felicità che dura meno della fiamma di una candela. Liza, che parla a Stavrogin dopo una notte d’amore (chi entra è invitato a disporsi sul letto a piacimento, con l’arroganza dell’amante dominatore), è invece dolorosamente consapevole dell’impossibilità di vivere con lui. Non vuole sacrificarsi al suo egoismo. La determinazione con cui si sta staccando è però colma di amarezza. Il peso della perdita si impone sul sentimento di liberazione. La fissità dello sguardo e i movimenti ipnotici protraggono l’addio fuori dal tempo. Non basta la lontananza dai corpi a sanare l’anima. Seppellendo ancora e ancora il legame che l’ha segnata, la donna è una reduce che non vuole, malgrado tutto, staccarsi dal pensiero che la logora. Tra teli di plastica che ricordano le pareti della stanza di un manicomio, sulle note incalzanti di The passenger di Iggy Pop, Stavrogin salta convulsamente sulla terra bagnata, che fa pensare al fango della sua condotta morale o a una sepoltura recente. Del resto, il crimine che ha commesso è sempre davanti ai suoi occhi. La sua assurda danza è metafora della scelta che lo ha sempre guidato: calpestare senza ritegno, imporre con violenza il peso della sua personalità. Si ferma solo per rievocare lo stupro della bambina che si è impiccata per la vergogna di quel che le ha fatto. E quando dice al pubblico che tornerà a parlare di queste cose, si comprende come sia ostaggio di se stesso. I fantasmi della mente sono inquilini molesti. Non basta una vita a liberarsene, forse perché sono la vita stessa.

giovedì 22 giugno 2017

“Due”, un catalogo di banalità



Due è il numero perfetto, a meno che non si desideri sposarsi, riprodursi e invecchiare serenamente insieme. La commedia di Miniero e Smeriglia, diretta da Luca Miniero e applaudita presso il Teatro Verdi, affoga le dinamiche della coppia in un catalogo di stereotipi che fa sembrare Vanity Fair (citato non a caso come autorevole fonte di statistiche) un capolavoro di psicologia. Raoul Bova è Marco, calabrese fiducioso nel binomio amicizia-copula, che considera un sacrificio supremo rinunciare alla soppressata. È professore di ginnastica con ambizioni di filosofo, impegnato in un trattato sull’essere, “Due” appunto, che però non vedrà mai la luce, perché non c’è risposta definitiva alla condizione umana. Paola (Chiara Francini), pedante, nevrotica e dissacrante, guarda con timore al matrimonio che li attende. E mentre lui monta il letto, le domande della fidanzata costringono a riflettere su desideri e frustrazioni. Le sagome in scena riproducono ciò che saranno i protagonisti tra vent’anni, con amanti e figli, pronti a cadere nella trappola della noia da cui li salverà solo la voglia di condividere corpi e risate. Tra approccio pseudofilosofico e zumba infatti non c’è partita: ecco il palco tramutarsi in discoteca e l’invito “Scopiamo?” dissipa ogni tipo di dubbio. Che si abbia una visione ironica del sesso o del pensiero di Epicuro, citato nel modo più banale possibile, ben venga. Il problema è che quella che viene presentata come leggerezza è in realtà superficialità che non può contare neppure su una scrittura accattivante: l’unica battuta degna di essere ricordata, pronunciata dopo la conclusione perché gli amanti sono sempre problematici, riguarda la voglia di avere un figlio da parte di Paola a cui Marco risponde. “Ma non sai mai chi ti metti in casa!”. Le voci fuori campo dei telegiornali all’inizio della messinscena alludono ad attentati terroristici. L’intento è probabilmente quello di contrapporre alla macrostoria il “dramma” da tinello di due borghesi, ma la scelta resta un’inutile aggiunta. Le assi di legno appese alle spalle dei protagonisti alludono alla difficoltà di creare qualcosa che sappia davvero resistere allo scorrere del tempo e diventano simbolo dei luoghi comuni affastellati nello spettacolo (l’incapacità di restare con l’amante, il bisogno di rincorrere la giovinezza, la genitorialità carente) e che diventano asfittici proprio perché totalizzanti. Se il cortese Raoul Bova sembra svolgere un compito a cui per primo non crede, Chiara Francini è sicuramente generosa nel dominare il palco dall’inizio alla fine, ma la sua prova risulta statica perché giocata quasi sempre sull’unica nota dell’attacco a ogni retorica. Sottovalutare la leggerezza evidentemente non paga.

giovedì 15 giugno 2017

“Il prezzo”, il veleno del denaro



“Questa roba deve valere qualcosa”. Sembra di veder brillare gli occhi di Esther mentre osserva gli oggetti coperti da un telo in attesa di essere venduti. Ma in gioco ci sarà molto di più. Accolto con favore dal pubblico del Teatro Verdi di Salerno, “Il prezzo” di Arthur Miller è andato in scena per la regia di Massimo Popolizio, che divide il palco con Umberto Orsini,Elia Schilton e Alvia Reale. Tutto ciò che è nell’appartamento deve essere messo in vendita a causa della demolizione dello stabile (i rumori delle esplosioni scandiscono la tensione del racconto). Non è solo per ragioni sceniche che gli oggetti siano accatastati su un lato del palcoscenico dinanzi al quale gli attori si muovono. Questa sistemazione visualizza la polarità che innerva l’intera rappresentazione. Ciò che è in vendita e ciò che non lo è (coscienza, affetti, tempo), ciò che può scomparire passando da un padrone all’altro  e ciò che resiste tenacemente sotto la scorza dei giorni (i legami, i rancori): in una parola la materialità e la spiritualità, anche se nella cornice impietosa del dramma questi termini hanno ben poco di solenne. Se i beni, infatti, ridotti soltanto a merce, non raccontano più un’appartenenza, le persone  a loro volta vivono con il denaro il rapporto ossessivo dell’ineluttabilità. Esther non vuole che il marito Victor vada al cinema con la divisa da poliziotto: deve proprio far capire a tutti quanto guadagna? Il fratello del protagonista, tornato a riaprire ferite anziché sanarle, gli rinfaccia di essere stato un fantoccio nelle mani del padre accudito fino all’ultimo giorno. Si scopre che quest’ultimo, non del tutto abbattuto dalla crisi, era in possesso di una certa somma di cui era comunque ostaggio. La stessa moglie del poliziotto è un’alcolizzata che non ha pareggiato i conti con la precarietà e Victor, che si è cullato nella dedizione al padre, vede nel disastro dei rapporti familiari quanto sia compromesso quel bene incalcolabile che è la possibilità di fare della propria vita quel che si vuole. Umberto Orsini, il broker che si muove con la naturalezza di chi inquadra tutto nell’ottica del dare e dell’avere, si ritrova testimone di una feroce resa dei conti. La recitazione enfatica, innaturale evidenzia il bisogno dei personaggi di ancorarsi ad alibi inconsistenti, finchè l’ostilità repressa li distrugge. Nella conclusione sembra esistere una speranza per Esther e suo marito. Ma il balletto a cui, ormai solo con la sua fonte di guadagno, Orsini si abbandona mentre le esplosioni sono sempre più incalzanti, è un’immagine chiara: l’euforia non è mai così viva come nel momento in cui sta veramente crollando tutto.

martedì 13 giugno 2017

“Acqua di colonia”, il passato che non passa



Non è colpa loro. Non sono certo intelligenti come noi. Men che meno sanno raggiungere il nostro grado di evoluzione. E allora perché non farne scempio oggi come sessant’anni fa? Vetriolo gettato senza risparmio su stereotipi, violenze camuffate da perbenismo e ipocrisie cattoliche, “Acqua di colonia” è lo spettacolo che Elvira Frosini e Daniele Timpano hanno proposto presso l’Auditorium di Via Cantarella a Salerno nell’ambito di Mutaverso, la stagione teatrale diretta da Vincenzo Albano. La messinscena è basata sull’esasperazione di un assunto (l’atteggiamento razzista verso il mondo africano da parte degli Italiani) fino a farlo esplodere dall’interno nel momento in cui lo rende totalizzante. Sono ricostruiti il colonialismo italiano in Libia, Eritrea, Somalia, Etiopia e la propaganda che l’ha sostenuto, dallo sguardo ottocentesco pervaso da superiorità alla guida fascista dell’Africa, che mostra gli indigeni come affettuose e dissimulatrici bestioline, da “Tripoli bel suol d’amor” a “Topolino in Abissinia”, dove la dicotomia civiltà/barbarie non è meno agghiacciante del recente busto a Graziani o dei temi raccolti da Paola Tabet, in cui un genitore nero va denunciato, cancellato o smacchiato.  I dati sul massacro e su tutta una letteratura eurocentrica si rincorrono dinanzi alla tendenza a ridurre tutto a “quattro bombette puzzolenti” e a “quattro campetti di concentramento”, mentre il pubblico è continuamente apostrofato nella sua ignoranza e invitato a cantare “Faccetta nera”, per prendere fino in fondo atto di quel cadavere vestito di rispettabilità che è la cattiva coscienza. Il palco deserto su cui gli attori si muovono nella prima parte dello spettacolo rispecchia il vuoto pneumatico dell’italiano medio, ben sigillato nella sua incoscienza, e la presenza di un ospite silenzioso straniero all’oscuro dello spettacolo è motivata dall’incomunicabilità di due mondi intrappolati nella dinamica preda/cacciatore. Le soluzioni sceniche ipotizzate nel primo tempo e attuate nel secondo (l’infantile rapacità del bel paese, la donna nera che sogna la cittadinanza e la sterile solitudine di Pasolini a cui dà corpo la Frosini; la rozza esuberanza di Ninetto Davoli, l’agguerrito Topolino pronto a scuoiare i mori e la supponenza di Montanelli, ben lieto di avere una dodicenne africana per sé, creati da Timpano) mostrano nella recitazione disturbante e provocatoria quale veleno tenace sia il disprezzo dell’altro del quale, a conti fatti, non importa nulla. Declinando gli stessi concetti dal punto di vista didattico e performativo, gli interpreti creano una claustrofobica cecità in cui l’approccio colonialista non perde la sua aggressività a dispetto del tempo che passa. Aida oggi morirebbe asfissiata in un camion e la finta empatia di Karen Blixen non è meno pericolosa del nemico dichiarato. Anche i buoni propositi sono infatti nel mirino. Il pelouche lanciato sul palco e guardato con ribrezzo, ontologicamente diverso e dunque inferiore, fa le veci del bimbo africano negli spot dell’Unicef, formidabile arma di ricatto psicologico, osservato dall’alto della generosità occidentale. E quando gli interpreti, con le maschere antigas di Topolino, lo portano via in un sacco di plastica nella luce gialla del gas sulle note di “Addio, sogni di gloria”, non è cambiato nulla: i sedicenti civili continuano a mietere morte. Sta anche al teatro fare in modo che sia davvero acqua passata.