mercoledì 16 luglio 2025

Falivene e Borrelli, un Godot circense

 Squadernarsi di prospettive, ampliamento delle possibilità: l’attesa può essere fertile 

o, secondo Beckett, inchiodare alle irrisolvibili incongruenze della condizione umana. La terza via è quella proposta da Adriano Falivene e Davide Borrelli in “Aspettando Totò”, accolto con favore dal pubblico della trentottesima edizione del Barbuti Festival. Liberamente ispirato ad “Aspettando Godot”, l’allestimento vede i due interpreti nei panni di Gnegno e Kefir, improbabili e vivaci guitti che si preparano alla venuta di un importante produttore, Totò, appunto, intenzionato (ma come fidarsi delle apparenze?) a finanziare un loro spettacolo. Dal momento che un vero artista non può certo oziare, ma deve essere costantemente all’altezza delle ghiotte opportunità vere o presunte, i due provano i loro strampalati copioni, tuffandosi in mezzo al pubblico e rapendo tre spettatori, di cui uno diventa la controfigura dell’agognato interlocutore, ma anche un lupo minaccioso e gli altri si ritrovano nei panni di Piramo e Tisbe, offrendo supporto ad acrobazie di ogni tipo. A una signora in platea si chiede di leggere il messaggio di Totò, un biglietto ironicamente racchiuso in una busta gigantesca, proporzionata al desiderio di combinare l’affare e consegnata, in precedenza, da un diavolaccio messo in fuga da una bottiglia di alcol (lo spirito santo).  In equilibrio su grandi sfere, sui trampoli o su un monociclo, tra maschere, parrucche che non calzano e immaginarie blatte da sterminare col borotalco, gli attori rendono predominante la dimensione circense, celebrando l’inventiva e la spudoratezza di chi si esibisce da sempre ovunque, senza preoccuparsi di vincoli o convenzioni. Non c’è traccia dell’implacabile attitudine di Beckett a scarnificare ogni tipo di riferimento o del problematico legame tra Pozzo e Lucky. L’incapacità di comunicare e comprendere è presente in una breve citazione tratta dal pirandelliano “Uno nessuno e centomila” e, nella conclusione, ripetere le stesse parole scambiate nella prima scena ricorda come non si possa fuggire dall’assurdo. Falivene e Borrelli prendono, dunque, le mosse dalle suggestioni del testo per rendere omaggio alla tenace multiformità di chi abita il palcoscenico, esaltando energicamente l’essenza di ogni performance : dominare lo sguardo e mutarlo in azione, in gioco, in evasione dal quotidiano. Non è allora un caso che Gnegno e Kefir immaginino di avere il mare davanti a sé da cui pescare i propri complici: chi recita può essere approdo o barca pronta a immergersi nel divenire.

“Iliade”, il gioco senza fine tra umano e divino

 


Una voce nel buio chiede alla Terra, madre di ogni cosa, e al cerchio del Sole, che tutto vede, di guardare allo strazio provato da un dio. Deve, in effetti, essere gravoso non conoscere più i confini della propria grandezza, soprattutto se quella stessa possanza suscita il sorriso e non certo la venerazione. Affascinante equilibrio tra sarcasmo e dolore, tra leggerezza e profondità. “Iliade- Il gioco degli dei” ha ottenuto un ampio successo presso il Teatro Verdi di Salerno. La drammaturgia di Roberto Aldorasi, Francesco Niccolini, Marcello Prayer e Alessio Boni (qui nelle vesti di un memorabile Zeus accanto alla convincente Antonella Attili, che impersona Era) prende corpo sul testo di Francesco Niccolini, liberamente ispirato al capolavoro omerico. Il cast, che comprende Haroun Fall, Jun Ichikawa, Liliana Massari, Francesco Meoni, Elena Nico, Marcello Prayer, domina il palco impedendo anche il minimo calo dell’attenzione. Libertà e costrizione, desiderio e capriccio del fato sono i due estremi tra cui si snoda una riflessione sul limite saggiamente antiretorica. Gli dei che si ritrovano su una spiaggia sembrano aver dimenticato ogni sacralità. Sotto gli occhi di Teti, severa e cupa, ma comunque apostrofata come ninfetta sottomarina, il signore dell’Olimpo è smemorato e irascibile, Ares, che dovrebbe incutere vivo terrore, è trattato al pari dello scemo del villaggio, Atena è etichettata come “fuori di testa”, Afrodite è troppo autocompiaciuta per nutrire dubbi su di sé, Ermes ama l’imprevedibilità, Era fa fatica a sopportare le intemperanze del marito e dei suoi numerosi figli, Apollo si ritrova nei versi di Rilke, ma, per quanto si abbandonino al sirtaki (perché divino è il ritmo del mondo), su tutti incombe la stessa domanda: quando è cominciata la caduta? Quando le creature immortali hanno iniziato a confrontarsi con la perdita di senso? Per comprenderlo, devono tornare alla storia che ha generato tutte le altre: la guerra di Troia. Ecco allora che gli dei, manovrando creature e oggetti di scena di Alberto Favretto, Marta Montevecchi e Raquel Silva, impersonano i protagonisti del poema, esprimendo l’intreccio tra umano e divino narrato da Omero e la fertile simbiosi tra gli opposti: ciò che è immortale e ciò che è fragile vibrano all’unisono, l’uno insegue l’altro senza sosta, perché quel che è destinato alla morte sogna di lasciare una memoria perenne e chi si muove al di fuori del tempo e dello spazio si nutre del richiamo dell’effimero. Scene emblematiche sono, per esempio, il connubio fisico tra Paride ed Elena (umiliata dalla dea poco prima, ma comunque strumento della sua volontà) che avviene carezzando il corpo di Afrodite o l’attento sguardo dei celesti dinanzi alla lotta tra Ettore e Achille combattuta al buio, perché l’ira annebbia la mente, e il principe troiano domatore di cavalli non può che giungere dalla platea, visto che l’ego del Pelide sembra abitare l’intero palco. Di conseguenza, le divinità possono apparire quanto vogliono da ponti sollevabili, rigorosamente posizionati in alto a ricordare la loro superiorità: il cielo non sa fare a meno degli esseri umani, di quella loro fragilità che sfida l’Ade, tanto che Apollo afferma “Quei fatti non furono mai ma furono sempre”. Ogni dettaglio della regia di Boni, Aldorasi e Prayer fa sì che scarnificazione del mito e consapevolezza di quanto pesino le illusioni della vita si bilancino. Il cerchio rosso, che sovrasta la scena e che fa pensare a un’eclisse, ricorda come fine e inizio combacino. I vani tentativi di Zeus di accendere il braciere all’inizio dello spettacolo o i suoi fulmini, che non vanno a segno come vorrebbe, denotano l’incapacità di portare luce nel buio dell’insensatezza. La rapidità fulminea con cui Era piega strategicamente il marito alle sue voglie deride la preponderante sessualità maschile, ma anche la possibilità di creare nuove vite e, quindi, nuovi approcci alla conoscenza in piena armonia tra visibile e invisibile. Quando Achille osserva Priamo, che lo scongiura in lacrime di restituirgli il cadavere di Ettore, si trova sulla scala collegata al ponte da cui appaiono gli altri esseri divini, perché le proprie origini lo spingono a sentirsi, ma invano, vicino a loro. Nelle ultime battute, ecco la risposta tanto attesa: l’orrendo massacro della città, occupata con l’inganno dai Greci, segna la frattura tra umano e divino, perché la guerra è un vicolo cieco. Gli esseri supremi hanno mai davvero dominato gli uomini? O piuttosto ne rappresentano lo specchio? Chi ha creato l’altro a propria immagine e somiglianza? Sciogliere l’enigma, tuttavia, è vano quanto credersi vittoriosi dinanzi alla Moira o pretendere di sfuggirle. Si comprende, allora, come non esista differenza tra chi abita la Terra e chi vuol dominarla dall’alto. L’eternità e la morte coincidono, si ritrovano a osservare entrambe il deserto a cui può condurre il cuore nero degli uomini, in attesa, forse, che un nuovo Omero torni a cantare, che il grande gioco ricominci. 

 

“L’anatra all’arancia”, croce e delizia del tradimento

 


Si può essere un “bugiardo cronico”, sempre pronto a rincorrere qualche gonnella e compiaciuto del controllo sul proprio menage, per poi essere tramortito da una notizia clamorosa: un “Apollo”, per di più aristocratico e facoltoso, sta per portare con sé verso una nuova vita i figli e la consorte, stanca per le continue infedeltà. Che contromisura adottare per scongiurare il disastro matrimoniale? Accolto molto calorosamente dal pubblico del Teatro Verdi di Salerno, “L’anatra all’arancia”, basato sul testo di William Douglas Home e di Marc Gilbert Sauvajon per la regia di Claudio Greg Gregori, deve il proprio successo a un frizzante connubio di attori, perfettamente consapevoli su come si orchestri un ritmo capace di coinvolgere lo spettatore. Emilio Solfrizzi (Gilberto) è il perno attorno a cui ruotano le situazioni, carismatico padrone della scena dalla prima all’ultima battuta, che restituisce freschezza anche a espedienti consumati, come il dilatare il dialogo attraverso il fraintendimento di un vocabolo, una mimica buffa e, talvolta, ironicamente pretestuosa, un sistematico disorientamento dell’interlocutore. Carlotta Natoli sa rendersi del tutto credibile nella sua fragilità sospesa tra candore e sarcasmo, mentre Ruben Rigillo (Leopoldo Augusto) dimostra acuto senso della misura nel contrapporre la propria galante ragionevolezza agli eccessi del rivale. Nei panni di Patty Pat, l’avvenente segretaria del marito tradito, Beatrice Schiaffino crea una perfetta oca felice di conquistare gli uomini, ma capace di insospettabile saggezza e Antonella Piccolo, che impersona la domestica Teresa e sembra riecheggiare lo stile di Tina Pica, è una burbera benefica difficile da dimenticare. La regia, supportata dalle scene di Fabiana Di Marco, dai costumi di Alessandra Benaduce e dal disegno luci di Massimo Gresia, sceglie la prevedibilità. Gilberto è un campione degli scacchi e pezzi di tale gioco contribuiscono all’arredamento del salone in cui si svolge l’azione, sottolineando come l’astuzia sia fondamentale nel piano del protagonista. Assume, quindi, un valore metaforico il sacrificio della regina nella partita tra i due personaggi principali che apre lo spettacolo: lui dovrà spingere lei a perdere qualcosa di importante, cioè la propria credibilità di moglie, perché il legame creduto morto possa rifiorire. Una volta scoperta non solo la tresca, ma anche che Lisa e l’amante sono in procinto di partire per Parigi, il marito la convince a ospitare nel weekend Leopoldo, concedendo un divorzio in cui possa accollarsi ogni colpa. Quando, infatti, la domestica scoprirà Gilberto nel letto di Patty Pat, invitata a sua volta, la scelta di Lisa di abbandonare il tetto coniugale risulterà più che legittima. La “generosità” dell’uomo è ovviamente un inganno: si finge accogliente e giulivo con il proprio antagonista, ma, appena gli si presenta l’occasione, descrive la moglie come una squilibrata, anticipa al conte gli infiniti disagi che avrà se accoglie i due figli della coppia, dato che il maschio si dedica ossessivamente alla batteria, riesce a incrinare il rapporto tra Lisa e il suo nuovo compagno. La gelosia di lei nel constatare che Gilberto non ha semplicemente finto, ma ha effettivamente vissuto una notte di sesso con la segretaria, dà il colpo di grazia al progetto di ricominciare coltivato dai due amanti. È a questo punto che la spregiudicatezza di Patty Pat pone le circostanze sotto una luce diversa: non esiste, in fondo, una grande differenza tra lei e Leopoldo. Quest’ultimo, che ha comunque tre matrimoni falliti alle spalle, pretende di dare stabilità a ciò che la ragazza vive con il massimo disimpegno, cioè il desiderio di avere qualcuno per sé, ben prima e oltre l’antico inganno chiamato amore. La sensualità, insomma, ha le sue ragioni e non riconoscerle è dannoso e sciocco. La bella giovane, quindi, avrà pure la cultura di un cactus (predilige “Natale a Cortina”, su cui si scatena l’ironia del suo capo, che la lascia ai “tortuosi meandri artistici della pellicola”), ma certo non perde di vista l’essenziale. Il coniuge, dal canto suo, non va per il sottile: se Lisa resta con il nobile gentiluomo, “più noioso di tutti i film di Antonioni messi insieme”, morirà di noia e dopo un anno avrà la stessa freschezza di un quadrifoglio conservato in un libro. I due, di conseguenza, si ritrovano felicemente. La sensazione è quella di assistere a una messinscena piacevole, che però non gioca fino in fondo le carte di una sana cattiveria. Ricorrere alla simulazione di un orgasmo o a inequivocabili movimenti pelvici per ricordare quanto il sesso conti resta la scelta di chi è sprovvisto di fantasia. Se è vero che la commedia propone un’infinità di strade per raggiungere il proprio bersaglio, non sempre la più facile conduce lontano. Dare scacco al pubblico, conquistandolo fino in fondo al di fuori di soluzioni espressive ricorrenti e non sempre efficaci richiede coraggio ed estro. In caso contrario, il grigiore rimproverato a Leopoldo si ripresenterà, tenace e scomodo.  

lunedì 30 giugno 2025

“Rumba”, il canto degli ultimi

 


Se credete che i santi siano quelli che vi osservano, tra il superbo e il commiserevole, dalla nicchia di una chiesa, siete fuori strada. Sono gli ultimi, i reietti, quelli a cui non dareste tre soldi, sempre pronti a ricordare che è impossibile e illogico sfuggire alla propria umanità. Lirico e graffiante, “Rumba” è lo spettacolo che un ispirato Ascanio Celestini ha diretto e interpretato, al fianco del musicista Gianluca Casadei, presso la Sala Pasolini. Attraverso la voce di Agata Celestini e le immagini dipinte di Franco Biagioni, l’interprete vuole dar voce alla marginalità non solo per riscoprirne l’intimo valore nel momento in cui non è riconosciuto o calpestato, ma anche per indagare le nevrosi e i lati oscuri di un sistema troppo preoccupato di autopreservarsi per comprendere le opportunità che la vita – soprattutto quella dei dimenticati- sa offrire. Perché tutti possano comprendere lo spirito con cui San Francesco creò il presepe nel 1223, il protagonista, che dialoga con l’amico Pietro, vorrebbe riunire, nella notte di Natale, tanti pellegrini nel parcheggio di un supermercato. Questo luogo è già apparso come simbolo dell’alienazione nel film di Celestini “La pecora nera” e in effetti si presta a diventare lo scenario di un grigiore opprimente, in cui gli individui siano solo numeri e mansioni. È proprio davanti a questo contesto che si può riscoprire il fascino di una figura come quella del santo di Assisi che, pur nel rispetto delle strutture politiche e sociali, sa essere al di fuori di facili categorie. Ecco allora che il regista diventa cantastorie di Francesco e di coloro che intrecciano la propria vita con il supermercato. Da un lato, abbiamo un giovane nobile che matura progressivamente la totale devozione a Cristo e il conseguente rifiuto di ogni bene materiale a favore dei più poveri, chiedendo perdono a Dio perché, dopo essere sfuggito con gli altri frati al pestaggio di un uomo che non ha voluto accoglierli, ha intonato un canto stonando (la purezza dell’autore del Cantico lascia sempre stupefatti). Dall’altro, si susseguono nel market personaggi fuori dall’ordinario proprio nella loro semplicità. Giobbe, l’analfabeta che orina nel thermos del preposto ed è un modello di pazienza, intuisce nell’arrivo di un pacco la presenza di quella vecchia che passa in forma di cane, di gatto, ti guarda e ti porta via (chiara immagine della morte) e quando muore, il pacco è poggiato sul rullo con la dolente solennità di chi accompagna un feretro. Joseph è un africano che lavora come becchino, si ritrova su un’imbarcazione per sfuggire agli orrori in Libia e subisce terribili violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, per poi essere cacciato dal supermercato. Nel ritrovare il compagno di viaggio creduto morto, diventa impossibile comprendere se a morire sia stato Joseph o il suo amico: chi ha subito i mali del mondo, infatti, solo perché è più facile colpire che capire, muore e rinasce a se stesso innumerevoli volte. È tuttavia necessario ricordare i nomi dei morti per seppellirli nel cuore dei vivi e diventa urgente ricordare Lamine Hakimi, il ventottenne algerino a cui sono stati negati i farmaci per giorni e che li ha ingeriti tutti di colpo per sottrarsi all’inferno del carcere. Molti incubi, inoltre, nascono dalla pochezza che non sa spingere lo sguardo oltre se stessa. Di qui il ritratto del razzista cocciuto, che non si rassegna alla perdita del proprio figlioletto, colpito da una tara familiare, e al fatto che uno zingaro della stessa età sia ancora vivo, continuando a salmodiare le consuete bestialità contro i “diversi”. La cattiveria, del resto, è dei ricchi, di quelli che si possono permettere la pistola con cui i fascisti sparano a Capodanno. Tutti coloro che non corrispondono ad attese tranquillizzanti sono respinti e cancellati. Che lo stesso Francesco non viva una perfetta armonia con i suoi seguaci è evidente nella battuta in cui si afferma che “Frate Elia è furbo, diventerà presidente del consiglio. Anzi, peggio, seconda carica dello Stato”. E quando l’uomo che ha cercato la pace con il Sultano muore, Santa Chiara comprende cosa accadrà di lui. Sarà presentato come un essere perfetto, distruggendo tutto quello che ha scritto prima della biografia di Bonaventura, per poterlo confinare lontano da qualunque compromissione dello status quo. Come si può raggiungere, in effetti, quello che è eccelso? Meglio accontentarsi del proprio egoismo. Se la sconvolgente generosità di Francesco viene edulcorata e nessun pellegrino giunge nel parcheggio, la sconfitta sembrerebbe totale. Non è così: la mangiatoia del primo presepe è vuota, perché il Salvatore nasce dovunque ci sia un emarginato. Prostitute, barboni, invisibili sono, quindi, tutti destinatari della santità, tutti riscattati da un mondo che non li vuole, compresa la pazza “dalla testa impicciata” che è la sola spettatrice, perché anche la follia, nella sua imprevedibilità, ricorda che la natura umana va compresa, ascoltata, vissuta senza filtri. Lo spettacolo si apre sulla visione di innumerevoli stelle e si chiude sull’impossibilità di contarle: tanti sono i pensieri che attendono di nascere, le persone da scoprire oltre ogni pregiudizio.

“Cose che so essere vere”, il vero volto di una famiglia

 


“Avrei voluto essere normale, qualunque cosa significhi” afferma uno dei protagonisti, ma la famiglia è esattamente il contrario di questa ambigua parola. Ritmo ineccepibile e intensa prova interpretativa hanno garantito, presso il Teatro Verdi di Salerno, un pieno successo a “Cose che so essere vere” di Andrew Bovell con Giuliana De Sio e Valerio Binasco nel duplice ruolo di attore e regista al fianco di Fabrizio Costella, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Stefania Medri. Il testo, tradotto da Micol Jalla, rivela con nuda empatia il percorso tutt’altro che lineare che conduce genitori e figli a fare i conti (nonostante resistenze, caparbietà, rimozioni) con pulsioni, contraddizioni, conflitti che non possono essere indolori, perché ridefiniscono prospettive e priorità. La regia è estremamente attenta nel cogliere il duplice aspetto del nucleo familiare, cioè bisogno di stabilità e apertura alle sollecitazioni esterne, luogo di costruzione dell’identità, ma anche arena in cui quella stessa identità è messa alla prova, ostacolata, disconosciuta in un sofferto tentativo di affermarsi. Le scritte che indicano l’avvicendarsi delle stagioni e il nome dei personaggi evidenziano la profondità dei legami tra questi ultimi e il contesto d’origine: il tempo ritorna così come tutte le figure in scena non possono fare a meno di tornare alla casa che li ha visti crescere, di ritrovare lì ciò che li ha portati a essere chi sono o potrebbero essere. La pedana su cui sono collocati il tavolo, la cucina, alcune piante ruota nel momento in cui ci si ritrova, perché il movimento circolare, che è un ritornare su se stessi, ribadisce come il punto di partenza (nascere da una coppia) debba sempre ricongiungersi col punto di arrivo (l’età adulta). Il giardino stesso è chiara metafora della vita che cresce e si espande, ma è anche una sorta di hortus conclusus, un piccolo mondo geloso dei propri confini e quasi orgoglioso della propria riconoscibilità. È però significativo che i giovani rivelino fino in fondo ciò che provano puntando i loro occhi sul pubblico, quando i genitori non sono fisicamente presenti: la consapevolezza, infatti, è un cammino solitario. Per quanto gli altri facciano emergere aspetti che non credevamo di possedere, comprendersi o ammettere tutte le difficoltà nel farlo sono momenti che allontanano dalle relazioni consuete, confinandoci nello scomodo istante in cui non si può tornare indietro. Quando, inoltre, madre e padre pensano ai propri figli, questi danno voce ai loro pensieri in scena pur essendo assenti, perché generare qualcuno ha tutta l’ineluttabilità di quello che non si può cancellare malgrado ogni distanza. L’azione si svolge in Australia e inizia con un telefono che squilla nel cuore della notte: incubo di chiunque abbia i propri cari lontano. Prende il via una gigantesca analessi. Bob e Fran (Binasco e De Sio, appunto), che hanno riposto ogni speranza nei quattro figli, sembrano i coniugi più ordinari del mondo, ma molto si annida sotto la superficie. Fran fa l’infermiera da trentacinque anni: sarà per questo che è impossibile mentirle. È talmente attenta a quel che celano i volti dei giovani che intuisce subito ciò che non vogliono ammettere. Capisce, dunque, che Rosie, tornata da un viaggio in Europa, ha il cuore spezzato per via di una giovane che l’ha illusa o che dietro la volontà di Pip di lasciare il marito Steve si cela un amante. Come spesso accade, però, a chi è dedito ai propri familiari, non coglie ciò che andrebbe colto o meglio lo sottovaluta. Non vuole, quindi, prendere atto del bisogno di Rosie di essere finalmente se stessa, dell’amarezza di Pip che si è sempre sentita schiacciata da una severità eccessiva, dell’infantilismo di Ben, del disagio di Mark. Né l’affettuosa e fragile presenza paterna risulta di conforto in situazioni molto complicate. A poco a poco, tuttavia, le maschere crollano. Fran ha amato un altro riservandosi una via di fuga dal matrimonio; Pip scopre in se stessa verso le figlie lo stesso sguardo critico che la madre ha posato su di lei; Mark scatena le ire di Fran decidendo di cambiare sesso (si chiamerà non a caso Mia, riappropriandosi di sé), Ben è un cocainomane schiacciato dal bisogno di competere con i ricchi, anche a costo di rubare e ciò scatena la rabbia di Bob, che ha generato l’ultima figlia nella speranza di sanare l’infelicità della moglie,  Rosie sceglierà la scrittura creativa, perché vivere significa innanzitutto raccontare e raccontarsi. La morte della madre (a quello si riferisce lo squillo iniziale) spingerà i componenti della famiglia a ritrovarsi e forse a concedersi un’altra possibilità. È significativo che, poco prima di morire, Fran, ormai sola con Bob, voglia finalmente lasciare il giardino a se stesso, accogliendo ciò che produrrà. La vita è anche questo: attendere che qualcosa fiorisca, anche quando tutto sembra inaridito.  

Luparella, la Napoli sempre cangiante di Enzo Moscato

 


“Chissà se il nostro vivere è un morire e il morire un vivere laggiu'” si chiede Socrate nell'Apologia. La Napoli di Enzo Moscato avrebbe la risposta pronta: morte e vita non possono fare a meno di coincidere in una città in cui tutto è inesorabilmente vitale, la carne e il desiderio, il sangue e l'abbandono, l'escremenziale e l’assoluto. Applaudito al Teatro Ghirelli di Salerno, “Luparella ovvero Foto di bordello con Nana'” è lo spettacolo che il celebre scrittore ha prodotto con Casa del Contemporaneo. Moscato divide la scena con un intenso Giuseppe Affinito, per fare in modo che il racconto delle prostitute di Via Toledo, nell'ultimo squarcio della seconda guerra mondiale, attraversi le generazioni, assumendo un carattere universale. Non esiste infatti epoca in cui il corpo non sia stato degradato a giocattolo da consumare e gettare via per volontà  di chi ha preteso di esercitare un qualunque potere. Le meretrici, a cui l'autore guarda con rispetto ed empatia, diventano così, nel loro candore contaminato, le testimoni della bassezza che le circonda. Affinito, che si muove spesso con la languidezza  del sogno, antico antidoto al male di vivere, ricorda che i  clienti del bordello sono professionisti, mentre i tedeschi sono brutali nelle carneficina come nel dominare i corpi delle “signorine”, che sarebbero ben liete di non vederli neppure da lontano, tanto è profondo l'orrore verso questi veri e propri predatori. L'arrivo dello swing e degli Americani, che tramuta le prostitute in cantanti al braccio dei vincitori, è  vernice fresca su situazioni vecchie come il mondo. La vivacita’ ostentata dalle donne è artefatta, è stordimento mai ripagato da nuova linfa, dato che tutto cambia per non cambiare. Se il copione di oppressi ed oppressori tende quindi a ripetersi, esiste però qualcosa che regala un altrove e s'impone ai sensi con sfrontata energia: è la musica dei ciechi e dei feriti, quella che percorre le vie di Toledo (Viviani è un riferimento forte) e coinvolge nei propri suoni non addomesticabili chiunque possa ascoltarla. È in balia di quella melodia che le donne del casino dimenticano la loro condizione e non è un caso che la padrona della casa di tolleranza, che si compiace di apprendere nuove posizioni sessuali in francese, non la sopporti. La maitresse, difatti, è una categoria del contesto sociale. Le donne al suo servizio, invece, proprio perché usate, avvertono il richiamo di una libertà che solo il suono, a sua volta connubio di ciò che è e di ciò che non è più, può donare. Luparella, prostituta abbandonata da tutti, muore nel dare alla luce un bambino. Nana’ l’accoglie amorevolmente, ma non puo'impedire che un tedesco, piombato da chissà dove, abusi del corpo senza vita della sua amica. Vita e morte si fondono in un connubio straniante, violento, e Nana’ uccidera’ lo stupratore con le forbici usate durante il parto (inizio e fine si mescolano fino a essere indistinguibili), affidando alle fogne il corpo dell'aggressore : è quello il posto di chi, dimenticando ogni umanita', era già morto senza saperlo, molto più di Luparella. Tra una luna ubriaca a cui parlare (il buio che genera nuovi pensieri, come il ventre devastato di Luparella), rose  che ricordano la Madonna di Filomena Marturano, una figura sullo sfondo che rimanda a Totò, per ancorare un contesto preciso a situazioni riconoscibili ovunque  e l'omaggio alla vittima col portone mezzo chiuso (è disdicevole farlo per una puttana? E cosa importa?), morte e vita continuano a fondersi, come una musica strana  che non si sa smettere di ascoltare.

mercoledì 25 giugno 2025

Katherine Mansfield, un’anima in fiamme

 


“Ma così si veste una puttana!”, pensa Virginia Woolf, quando la vede per la prima volta, considerandola simile a un “gatto solitario, osservatore”. Eppure le anime in fiamme si riconoscono e l’autrice di “Gita al faro” le proporrà di pubblicare una delle sue opere più famose, “Preludio”, attraverso la propria casa editrice. A Katherine Mansfield è dedicato “Ho sentito il bisogno di dirlo a qualcuno”, lo spettacolo, che ha inaugurato la stagione del Piccolo Teatro del Giullare, di cui la protagonista Francesca Pica cura l’elaborazione drammaturgica, mentre le musiche originali e la drammaturgia del suono portano la firma di Carlo Roselli; l’allestimento, invece, è di Domenico Latronico. Francesca Pica si misura con un ruolo a lei particolarmente congeniale, perché la totale generosità e l’acuto senso del ritmo narrativo con cui sostanzia attese, ricordi, aspirazioni di colei che desiderava essere “quante più donne possibili” conducono a un sagace equilibrio tra ironia e dramma, tra ansia di vivere e solitudine. Le musiche di Roselli non rappresentano una semplice colonna sonora, ma ampliano suggestioni di gesti e parole, dando l’impressione che il cuore della  Manfield sia sempre a nudo, anche nei rari momenti in cui esce di scena. Tra stralci di racconti, pagine di diario, eventi riletti finalmente con gli occhi di questa scrittrice e non dei benpensanti che non le hanno mai perdonato nulla, prende corpo una biografia emotiva, in cui il desiderio di esprimersi senza filtri è stato pagato molto caro, perché, come Katherine dice a se stessa, “Hai passato tutta la vita a scrivere, a innamorarti”. La leggerezza con cui questa figura ha lasciato il segno non è meno presente, nella pièce, della sua passionalità: per questo entra in scena come se il vento la muovesse insieme al suo grazioso ombrellino, mentre pronuncia i tanti nomi che ha voluto darsi nel corso degli anni (chi ha preteso di legarla a un nome solo, cioè a un ruolo, è rimasto deluso). Il vento è incostante, inafferrabile, tenace, proprio come questa donna, pronta a spazzare via le comode certezze borghesi fin da giovanissima, quando il suo attaccamento all’amica di sempre, Ida Baker, induce la madre a spedirla in Baviera “per appetiti sessuali non conformi”. Non sono certo le costrizioni a scoraggiarla dal tuffarsi nelle cose, che sia la cerchia di amici della Woolf o il maestoso paesaggio dei Maori, dove risonanze profonde le resteranno sotto la pelle. Nutrirsi della natura, sia pur trasfigurata secondo il proprio stato d’animo, sarà infatti una costante in un percorso irregolare. Il padre può rinchiuderla in camera quanto vuole, ma non può affievolire il primo amore per Mata, principessa maori dal viso che emana pace, pur nelle sue “linee crudelmente selvagge . Quando il genitore le riserva una rendita ridicola e la madre la disereda, Katherine, sola in quella Londra che le aveva fatto tante promesse, deve combattere con molte difficoltà: due aborti, un matrimonio riparatore di un solo giorno, un’esistenza randagia in cui è violoncellista, attrice, artista del circo, le nozze con John Middleton Murry, che la comprende, ma da cui lei fugge a più riprese, perché non esiste sosta, se si vuole essere attraversate da mille modi di vivere. Neanche la scoperta della tisi riesce a placare la sete di appartenere al mondo, respirarlo in tutte le sue dimensioni. Solo lei può paragonare il proprio stato e quello di un paziente del sanatorio, scossi entrambi da un’orrenda tosse, a “due galli in falso chiarore di albe”. Non è, però, solo il male fisico a tormentarla: il ricordo dell’amatissimo Boogie, il fratello morto nella Prima Guerra Mondiale, la ricerca di una meta, che si trasforma subito in una nuova partenza, la spossano non meno della malattia. È, dunque, coerente la scelta di portare sul palco due racconti come  Pictures  e Soffia il vento. Nel primo, Miss Moss si accompagna a un uomo dopo aver cercato invano lavoro presso gli impresari, nel secondo un’infanzia felice accorcia ogni distanza. Durezza del quotidiano e sogno hanno dominato l’esistenza di Katherine. Non può che morire a Fontainebleau, tra gli animali, danzando nel vento come all’inizio della messinscena: lontano da schemi, codici, paradigmi. Il solo modo di entrare nella morte a occhi aperti.