lunedì 30 giugno 2025

“Rumba”, il canto degli ultimi

 


Se credete che i santi siano quelli che vi osservano, tra il superbo e il commiserevole, dalla nicchia di una chiesa, siete fuori strada. Sono gli ultimi, i reietti, quelli a cui non dareste tre soldi, sempre pronti a ricordare che è impossibile e illogico sfuggire alla propria umanità. Lirico e graffiante, “Rumba” è lo spettacolo che un ispirato Ascanio Celestini ha diretto e interpretato, al fianco del musicista Gianluca Casadei, presso la Sala Pasolini. Attraverso la voce di Agata Celestini e le immagini dipinte di Franco Biagioni, l’interprete vuole dar voce alla marginalità non solo per riscoprirne l’intimo valore nel momento in cui non è riconosciuto o calpestato, ma anche per indagare le nevrosi e i lati oscuri di un sistema troppo preoccupato di autopreservarsi per comprendere le opportunità che la vita – soprattutto quella dei dimenticati- sa offrire. Perché tutti possano comprendere lo spirito con cui San Francesco creò il presepe nel 1223, il protagonista, che dialoga con l’amico Pietro, vorrebbe riunire, nella notte di Natale, tanti pellegrini nel parcheggio di un supermercato. Questo luogo è già apparso come simbolo dell’alienazione nel film di Celestini “La pecora nera” e in effetti si presta a diventare lo scenario di un grigiore opprimente, in cui gli individui siano solo numeri e mansioni. È proprio davanti a questo contesto che si può riscoprire il fascino di una figura come quella del santo di Assisi che, pur nel rispetto delle strutture politiche e sociali, sa essere al di fuori di facili categorie. Ecco allora che il regista diventa cantastorie di Francesco e di coloro che intrecciano la propria vita con il supermercato. Da un lato, abbiamo un giovane nobile che matura progressivamente la totale devozione a Cristo e il conseguente rifiuto di ogni bene materiale a favore dei più poveri, chiedendo perdono a Dio perché, dopo essere sfuggito con gli altri frati al pestaggio di un uomo che non ha voluto accoglierli, ha intonato un canto stonando (la purezza dell’autore del Cantico lascia sempre stupefatti). Dall’altro, si susseguono nel market personaggi fuori dall’ordinario proprio nella loro semplicità. Giobbe, l’analfabeta che orina nel thermos del preposto ed è un modello di pazienza, intuisce nell’arrivo di un pacco la presenza di quella vecchia che passa in forma di cane, di gatto, ti guarda e ti porta via (chiara immagine della morte) e quando muore, il pacco è poggiato sul rullo con la dolente solennità di chi accompagna un feretro. Joseph è un africano che lavora come becchino, si ritrova su un’imbarcazione per sfuggire agli orrori in Libia e subisce terribili violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, per poi essere cacciato dal supermercato. Nel ritrovare il compagno di viaggio creduto morto, diventa impossibile comprendere se a morire sia stato Joseph o il suo amico: chi ha subito i mali del mondo, infatti, solo perché è più facile colpire che capire, muore e rinasce a se stesso innumerevoli volte. È tuttavia necessario ricordare i nomi dei morti per seppellirli nel cuore dei vivi e diventa urgente ricordare Lamine Hakimi, il ventottenne algerino a cui sono stati negati i farmaci per giorni e che li ha ingeriti tutti di colpo per sottrarsi all’inferno del carcere. Molti incubi, inoltre, nascono dalla pochezza che non sa spingere lo sguardo oltre se stessa. Di qui il ritratto del razzista cocciuto, che non si rassegna alla perdita del proprio figlioletto, colpito da una tara familiare, e al fatto che uno zingaro della stessa età sia ancora vivo, continuando a salmodiare le consuete bestialità contro i “diversi”. La cattiveria, del resto, è dei ricchi, di quelli che si possono permettere la pistola con cui i fascisti sparano a Capodanno. Tutti coloro che non corrispondono ad attese tranquillizzanti sono respinti e cancellati. Che lo stesso Francesco non viva una perfetta armonia con i suoi seguaci è evidente nella battuta in cui si afferma che “Frate Elia è furbo, diventerà presidente del consiglio. Anzi, peggio, seconda carica dello Stato”. E quando l’uomo che ha cercato la pace con il Sultano muore, Santa Chiara comprende cosa accadrà di lui. Sarà presentato come un essere perfetto, distruggendo tutto quello che ha scritto prima della biografia di Bonaventura, per poterlo confinare lontano da qualunque compromissione dello status quo. Come si può raggiungere, in effetti, quello che è eccelso? Meglio accontentarsi del proprio egoismo. Se la sconvolgente generosità di Francesco viene edulcorata e nessun pellegrino giunge nel parcheggio, la sconfitta sembrerebbe totale. Non è così: la mangiatoia del primo presepe è vuota, perché il Salvatore nasce dovunque ci sia un emarginato. Prostitute, barboni, invisibili sono, quindi, tutti destinatari della santità, tutti riscattati da un mondo che non li vuole, compresa la pazza “dalla testa impicciata” che è la sola spettatrice, perché anche la follia, nella sua imprevedibilità, ricorda che la natura umana va compresa, ascoltata, vissuta senza filtri. Lo spettacolo si apre sulla visione di innumerevoli stelle e si chiude sull’impossibilità di contarle: tanti sono i pensieri che attendono di nascere, le persone da scoprire oltre ogni pregiudizio.

“Cose che so essere vere”, il vero volto di una famiglia

 


“Avrei voluto essere normale, qualunque cosa significhi” afferma uno dei protagonisti, ma la famiglia è esattamente il contrario di questa ambigua parola. Ritmo ineccepibile e intensa prova interpretativa hanno garantito, presso il Teatro Verdi di Salerno, un pieno successo a “Cose che so essere vere” di Andrew Bovell con Giuliana De Sio e Valerio Binasco nel duplice ruolo di attore e regista al fianco di Fabrizio Costella, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Stefania Medri. Il testo, tradotto da Micol Jalla, rivela con nuda empatia il percorso tutt’altro che lineare che conduce genitori e figli a fare i conti (nonostante resistenze, caparbietà, rimozioni) con pulsioni, contraddizioni, conflitti che non possono essere indolori, perché ridefiniscono prospettive e priorità. La regia è estremamente attenta nel cogliere il duplice aspetto del nucleo familiare, cioè bisogno di stabilità e apertura alle sollecitazioni esterne, luogo di costruzione dell’identità, ma anche arena in cui quella stessa identità è messa alla prova, ostacolata, disconosciuta in un sofferto tentativo di affermarsi. Le scritte che indicano l’avvicendarsi delle stagioni e il nome dei personaggi evidenziano la profondità dei legami tra questi ultimi e il contesto d’origine: il tempo ritorna così come tutte le figure in scena non possono fare a meno di tornare alla casa che li ha visti crescere, di ritrovare lì ciò che li ha portati a essere chi sono o potrebbero essere. La pedana su cui sono collocati il tavolo, la cucina, alcune piante ruota nel momento in cui ci si ritrova, perché il movimento circolare, che è un ritornare su se stessi, ribadisce come il punto di partenza (nascere da una coppia) debba sempre ricongiungersi col punto di arrivo (l’età adulta). Il giardino stesso è chiara metafora della vita che cresce e si espande, ma è anche una sorta di hortus conclusus, un piccolo mondo geloso dei propri confini e quasi orgoglioso della propria riconoscibilità. È però significativo che i giovani rivelino fino in fondo ciò che provano puntando i loro occhi sul pubblico, quando i genitori non sono fisicamente presenti: la consapevolezza, infatti, è un cammino solitario. Per quanto gli altri facciano emergere aspetti che non credevamo di possedere, comprendersi o ammettere tutte le difficoltà nel farlo sono momenti che allontanano dalle relazioni consuete, confinandoci nello scomodo istante in cui non si può tornare indietro. Quando, inoltre, madre e padre pensano ai propri figli, questi danno voce ai loro pensieri in scena pur essendo assenti, perché generare qualcuno ha tutta l’ineluttabilità di quello che non si può cancellare malgrado ogni distanza. L’azione si svolge in Australia e inizia con un telefono che squilla nel cuore della notte: incubo di chiunque abbia i propri cari lontano. Prende il via una gigantesca analessi. Bob e Fran (Binasco e De Sio, appunto), che hanno riposto ogni speranza nei quattro figli, sembrano i coniugi più ordinari del mondo, ma molto si annida sotto la superficie. Fran fa l’infermiera da trentacinque anni: sarà per questo che è impossibile mentirle. È talmente attenta a quel che celano i volti dei giovani che intuisce subito ciò che non vogliono ammettere. Capisce, dunque, che Rosie, tornata da un viaggio in Europa, ha il cuore spezzato per via di una giovane che l’ha illusa o che dietro la volontà di Pip di lasciare il marito Steve si cela un amante. Come spesso accade, però, a chi è dedito ai propri familiari, non coglie ciò che andrebbe colto o meglio lo sottovaluta. Non vuole, quindi, prendere atto del bisogno di Rosie di essere finalmente se stessa, dell’amarezza di Pip che si è sempre sentita schiacciata da una severità eccessiva, dell’infantilismo di Ben, del disagio di Mark. Né l’affettuosa e fragile presenza paterna risulta di conforto in situazioni molto complicate. A poco a poco, tuttavia, le maschere crollano. Fran ha amato un altro riservandosi una via di fuga dal matrimonio; Pip scopre in se stessa verso le figlie lo stesso sguardo critico che la madre ha posato su di lei; Mark scatena le ire di Fran decidendo di cambiare sesso (si chiamerà non a caso Mia, riappropriandosi di sé), Ben è un cocainomane schiacciato dal bisogno di competere con i ricchi, anche a costo di rubare e ciò scatena la rabbia di Bob, che ha generato l’ultima figlia nella speranza di sanare l’infelicità della moglie,  Rosie sceglierà la scrittura creativa, perché vivere significa innanzitutto raccontare e raccontarsi. La morte della madre (a quello si riferisce lo squillo iniziale) spingerà i componenti della famiglia a ritrovarsi e forse a concedersi un’altra possibilità. È significativo che, poco prima di morire, Fran, ormai sola con Bob, voglia finalmente lasciare il giardino a se stesso, accogliendo ciò che produrrà. La vita è anche questo: attendere che qualcosa fiorisca, anche quando tutto sembra inaridito.  

Luparella, la Napoli sempre cangiante di Enzo Moscato

 


“Chissà se il nostro vivere è un morire e il morire un vivere laggiu'” si chiede Socrate nell'Apologia. La Napoli di Enzo Moscato avrebbe la risposta pronta: morte e vita non possono fare a meno di coincidere in una città in cui tutto è inesorabilmente vitale, la carne e il desiderio, il sangue e l'abbandono, l'escremenziale e l’assoluto. Applaudito al Teatro Ghirelli di Salerno, “Luparella ovvero Foto di bordello con Nana'” è lo spettacolo che il celebre scrittore ha prodotto con Casa del Contemporaneo. Moscato divide la scena con un intenso Giuseppe Affinito, per fare in modo che il racconto delle prostitute di Via Toledo, nell'ultimo squarcio della seconda guerra mondiale, attraversi le generazioni, assumendo un carattere universale. Non esiste infatti epoca in cui il corpo non sia stato degradato a giocattolo da consumare e gettare via per volontà  di chi ha preteso di esercitare un qualunque potere. Le meretrici, a cui l'autore guarda con rispetto ed empatia, diventano così, nel loro candore contaminato, le testimoni della bassezza che le circonda. Affinito, che si muove spesso con la languidezza  del sogno, antico antidoto al male di vivere, ricorda che i  clienti del bordello sono professionisti, mentre i tedeschi sono brutali nelle carneficina come nel dominare i corpi delle “signorine”, che sarebbero ben liete di non vederli neppure da lontano, tanto è profondo l'orrore verso questi veri e propri predatori. L'arrivo dello swing e degli Americani, che tramuta le prostitute in cantanti al braccio dei vincitori, è  vernice fresca su situazioni vecchie come il mondo. La vivacita’ ostentata dalle donne è artefatta, è stordimento mai ripagato da nuova linfa, dato che tutto cambia per non cambiare. Se il copione di oppressi ed oppressori tende quindi a ripetersi, esiste però qualcosa che regala un altrove e s'impone ai sensi con sfrontata energia: è la musica dei ciechi e dei feriti, quella che percorre le vie di Toledo (Viviani è un riferimento forte) e coinvolge nei propri suoni non addomesticabili chiunque possa ascoltarla. È in balia di quella melodia che le donne del casino dimenticano la loro condizione e non è un caso che la padrona della casa di tolleranza, che si compiace di apprendere nuove posizioni sessuali in francese, non la sopporti. La maitresse, difatti, è una categoria del contesto sociale. Le donne al suo servizio, invece, proprio perché usate, avvertono il richiamo di una libertà che solo il suono, a sua volta connubio di ciò che è e di ciò che non è più, può donare. Luparella, prostituta abbandonata da tutti, muore nel dare alla luce un bambino. Nana’ l’accoglie amorevolmente, ma non puo'impedire che un tedesco, piombato da chissà dove, abusi del corpo senza vita della sua amica. Vita e morte si fondono in un connubio straniante, violento, e Nana’ uccidera’ lo stupratore con le forbici usate durante il parto (inizio e fine si mescolano fino a essere indistinguibili), affidando alle fogne il corpo dell'aggressore : è quello il posto di chi, dimenticando ogni umanita', era già morto senza saperlo, molto più di Luparella. Tra una luna ubriaca a cui parlare (il buio che genera nuovi pensieri, come il ventre devastato di Luparella), rose  che ricordano la Madonna di Filomena Marturano, una figura sullo sfondo che rimanda a Totò, per ancorare un contesto preciso a situazioni riconoscibili ovunque  e l'omaggio alla vittima col portone mezzo chiuso (è disdicevole farlo per una puttana? E cosa importa?), morte e vita continuano a fondersi, come una musica strana  che non si sa smettere di ascoltare.

mercoledì 25 giugno 2025

Katherine Mansfield, un’anima in fiamme

 


“Ma così si veste una puttana!”, pensa Virginia Woolf, quando la vede per la prima volta, considerandola simile a un “gatto solitario, osservatore”. Eppure le anime in fiamme si riconoscono e l’autrice di “Gita al faro” le proporrà di pubblicare una delle sue opere più famose, “Preludio”, attraverso la propria casa editrice. A Katherine Mansfield è dedicato “Ho sentito il bisogno di dirlo a qualcuno”, lo spettacolo, che ha inaugurato la stagione del Piccolo Teatro del Giullare, di cui la protagonista Francesca Pica cura l’elaborazione drammaturgica, mentre le musiche originali e la drammaturgia del suono portano la firma di Carlo Roselli; l’allestimento, invece, è di Domenico Latronico. Francesca Pica si misura con un ruolo a lei particolarmente congeniale, perché la totale generosità e l’acuto senso del ritmo narrativo con cui sostanzia attese, ricordi, aspirazioni di colei che desiderava essere “quante più donne possibili” conducono a un sagace equilibrio tra ironia e dramma, tra ansia di vivere e solitudine. Le musiche di Roselli non rappresentano una semplice colonna sonora, ma ampliano suggestioni di gesti e parole, dando l’impressione che il cuore della  Manfield sia sempre a nudo, anche nei rari momenti in cui esce di scena. Tra stralci di racconti, pagine di diario, eventi riletti finalmente con gli occhi di questa scrittrice e non dei benpensanti che non le hanno mai perdonato nulla, prende corpo una biografia emotiva, in cui il desiderio di esprimersi senza filtri è stato pagato molto caro, perché, come Katherine dice a se stessa, “Hai passato tutta la vita a scrivere, a innamorarti”. La leggerezza con cui questa figura ha lasciato il segno non è meno presente, nella pièce, della sua passionalità: per questo entra in scena come se il vento la muovesse insieme al suo grazioso ombrellino, mentre pronuncia i tanti nomi che ha voluto darsi nel corso degli anni (chi ha preteso di legarla a un nome solo, cioè a un ruolo, è rimasto deluso). Il vento è incostante, inafferrabile, tenace, proprio come questa donna, pronta a spazzare via le comode certezze borghesi fin da giovanissima, quando il suo attaccamento all’amica di sempre, Ida Baker, induce la madre a spedirla in Baviera “per appetiti sessuali non conformi”. Non sono certo le costrizioni a scoraggiarla dal tuffarsi nelle cose, che sia la cerchia di amici della Woolf o il maestoso paesaggio dei Maori, dove risonanze profonde le resteranno sotto la pelle. Nutrirsi della natura, sia pur trasfigurata secondo il proprio stato d’animo, sarà infatti una costante in un percorso irregolare. Il padre può rinchiuderla in camera quanto vuole, ma non può affievolire il primo amore per Mata, principessa maori dal viso che emana pace, pur nelle sue “linee crudelmente selvagge . Quando il genitore le riserva una rendita ridicola e la madre la disereda, Katherine, sola in quella Londra che le aveva fatto tante promesse, deve combattere con molte difficoltà: due aborti, un matrimonio riparatore di un solo giorno, un’esistenza randagia in cui è violoncellista, attrice, artista del circo, le nozze con John Middleton Murry, che la comprende, ma da cui lei fugge a più riprese, perché non esiste sosta, se si vuole essere attraversate da mille modi di vivere. Neanche la scoperta della tisi riesce a placare la sete di appartenere al mondo, respirarlo in tutte le sue dimensioni. Solo lei può paragonare il proprio stato e quello di un paziente del sanatorio, scossi entrambi da un’orrenda tosse, a “due galli in falso chiarore di albe”. Non è, però, solo il male fisico a tormentarla: il ricordo dell’amatissimo Boogie, il fratello morto nella Prima Guerra Mondiale, la ricerca di una meta, che si trasforma subito in una nuova partenza, la spossano non meno della malattia. È, dunque, coerente la scelta di portare sul palco due racconti come  Pictures  e Soffia il vento. Nel primo, Miss Moss si accompagna a un uomo dopo aver cercato invano lavoro presso gli impresari, nel secondo un’infanzia felice accorcia ogni distanza. Durezza del quotidiano e sogno hanno dominato l’esistenza di Katherine. Non può che morire a Fontainebleau, tra gli animali, danzando nel vento come all’inizio della messinscena: lontano da schemi, codici, paradigmi. Il solo modo di entrare nella morte a occhi aperti.    

“Rumore bianco”, la “normalità” che uccide

 


Provate a restare sintonizzati su un canale televisivo che non trasmette nulla, ma diffonde il proprio ronzio nella stanza. All’inizio potrà sembrarvi fastidioso, ma vi abituerete presto e vi sembrerà naturale che scandisca la vostra giornata, dia il ritmo ai vostri pensieri. La cosiddetta normalità è così: pervade le esistenze e non ci si accorge di come le faccia a pezzi. Applaudito calorosamente dal pubblico del Piccolo Teatro del Giullare, “Rumore bianco”, diretto da Yari Gugliucci e interpretato e scritto da Danilo Napoli, si avvale dell’aiuto regia di Antonietta Barcellona, degli elementi di scena di Anna Simeoli, del disegno luci di Virna Prescenzo, mentre le voci fuori campo sono di Gennaro Ciotola e Michele Vargiu e i costumi portano la firma del Convitto Nazionale Statale T. Tasso e Antonio Siniscalchi. L’interprete dà prova di notevole carisma in un ruolo a dir poco disturbante, orchestrando passione e amarezza, sarcasmo e sofferenza con un minuzioso lavoro su ogni gesto e silenzio, per cui quello a cui si assiste è ben più di un monologo: è una discesa lenta e inesorabile nel buio di chi ha ceduto troppo terreno alla pressione sociale e a quei condizionamenti crudeli e subdoli che si annidano in troppe famiglie. Lo spettacolo si basa su una serie di scelte precise, che ampliano il fluire delle emozioni. Il pupazzo dalle fattezze femminili su una sedia in cantina, all’inizio della rappresentazione, è visibile prima ancora del protagonista e si rivelerà essere sua madre. Questo tempismo è motivato: la pretesa di modellare un individuo sulla base di convenzioni rassicuranti è preesistente alla vita stessa; si potrebbe dire che l’attenda al varco per darla in pasto a una morale tanto più feroce quanto più disposta a darsi il crisma della rispettabilità.  Il debito verso Psyco non è disconosciuto, ma ripensato: nel capolavoro hitchcockiano, il corpo materno è un mezzo per scongiurare un gigantesco senso di colpa, mentre sul palco diventa il correlativo oggettivo del vuoto involucro che sono i giorni del figlio, destinato, nella prospettiva dei genitori, a diventare un venerando padre di famiglia, dedito a un mortifero lavoro stabile in Comune. Il giovane è, invece, un serial killer di donne trans per reprimere invano il proprio orientamento sessuale e, quando ricorda la sua prima vittima, Rossella, all’anagrafe Cristiano (ma a che serve mutare nome, se si è scelto di essere liberi?) rivive il difficile tentativo di uscire allo scoperto tra le reazioni disgustate dei compagni con cui gioca a calcio, le cinghiate del padre fascista (gliela aveva regalata lui, quella cintura! A saperlo, tanto sarebbe valso acquistarla dai cinesi), la prostituzione, un assurdo cliente che pretenderebbe di lanciargli coltelli come in un circo, a dimostrazione di come siamo tutti oggetto di desideri inconfessabili, la presenza al funerale paterno, ripagata da calci e pugni. Ecco, però, che la vicenda appena raccontata è la propria: Cristiano/Rossella è l’assassino, vessato in una setta che lo annichilisce, mentre il rumore bianco fa da sottofondo (“Dove non arriva la scienza, arriva la fede”, afferma la madre). Oltre al perbenismo borghese, il bersaglio colpito con ferocia è appunto la religione : il fantomatico padre John (in realtà proveniente da Catanzaro), perfetto esempio di ipocrisia, si sgola nel proclamarsi guarito dall’omosessualità grazie a Cristo, ma il personaggio principale non può fare a meno di immaginare il Salvatore con addominali da urlo nell’atto di proporre “Ti va un po’di Inri, solo io e te?”. Vittima e carnefice nello stesso tempo, Cristiano interiorizza fino alle estreme conseguenze la violenza subita, mentre un televisore annuncia che il cerchio si stringe attorno all’omicida, ma la conclusione è una pacificazione quanto mai ambigua. Desideroso di annullarsi in quel fruscio cosmico che coprirà tutto, dato che il dolore non conosce redenzione, fa il gesto di spararsi, per poi presentarsi in abiti femminili al fantoccio e perdonarlo, trascinandolo in una danza, nel momento in cui una voce gli comunica tranquillamente che è pronto in tavola. Non si tratta di uno scampolo di vittoria. Un’armonia tra coscienza e sistema è possibile solo in uno stadio allucinatorio, in un angolo profondo dell’anima, dove riscoprirsi al tempo stesso figli e nuove identità. Inutile chiedere un briciolo di empatia al pulito e ordinato mondo dei borghesi: la loro etica è simile a quel pupazzo, inerte come i corpi su cui adora accanirsi.  

Scannasurice”, un’indimenticabile Imma Villa nella Napoli di Moscato

 

Che gli inconvenienti siano tanti è innegabile: rosicchiano quaderni, prediligono i glutei delle ragazze, organizzano improvvidamente festini “a fronn e limon”, per tacere di quella superiorità, quell’”albagia” che fa venire voglia di impiccarli sulla pubblica piazza, così da non lasciare soli Corradino di Svevia e Luisa Sanfelice. Eppure i topi, che, non visti, percorrono la messinscena, non sono semplicemente ospiti spesso sgraditi: sono i napoletani stessi, ovvero l’umanità intera. Copione di una forza inaudita che segna il debutto di Enzo Moscato come autore e interprete nel 1982, “Scannasurice”, proposto con successo presso la Sala Pasolini di Salerno, vede all’opera un’Imma Villa, per la regia di Carlo Cerciello, che sa affascinare in ogni declinazione della tenerezza, della ferocia, del sarcasmo. Fin da questo testo, Moscato esprime in un linguaggio meticcio e raffinato ossessioni che innerveranno il suo percorso artistico: la mescolanza di sacro e profano, il confine perennemente labile tra vita e morte, le ferite mai sanate nel corpo di una città che si fa immagine del disturbante e della pienezza vitale, anche quando, per dirla con Lucano, le macerie stesse vanno in rovina. La scenografia è eloquente: un palazzo che sembra essere rimasto a stento in piedi dopo un bombardamento, privo di finestre, una struttura ridotta a scheletro tra miseria e immondizia. Il bum bum bum a cui allude la protagonista, un femminiello e dunque, nel suo essere al tempo stesso uomo e donna, emblema di ogni ambiguità, è associabile al terremoto, ma anche alla guerra, al degrado cui ogni violenza, in qualunque luogo e tempo, può giungere. Ecco perchè è citata “la solita fravec di San Pietro, u scav i’Pompei”: tutto viene distrutto e tutto fa fatica a emergere da quella distruzione. Scannasurice è una sopravvissuta “sub specie Sibyllae”, una figura che si fa varco tra buio e luce e questo la rende una sorta di ponte tra ciò che è stato e ciò che è: i suoi racconti, che hanno del fiabesco, dell’esoterico e riflettono contemporaneamente malesseri e attese di ogni realtà, conducono in una Napoli sempre sospesa tra differenti livelli della percezione. La signorina Rosina, che, “quando l’utero era dritto”, faceva sentire il proprio canto fino a Via Medina (il suono, nel suo carattere allusivo, è fondamentale dove visibile e invisibile s’inseguono) e viene trovata morta, circondata da dodici topi, come se avessero voluto suicidarsi in perfetto accordo, racchiude nella propria pelle storie sempre diverse e sempre uguali di sfruttamento e desideri impudichi. Significativo che la casa della signorina diventi “un porto di mare nero”, dove si affollano gli africani: nuovi outsiders subentrano agli antichi. Scarafaggi e topi, considerati dalla nonna della protagonista ambasciatori della bella mbriana, ricordano che anche in quel che è considerato infimo si annida la bellezza dell’ineffabile, evocata da una filastrocca, non a caso forma prelogica di conoscenza. L’amore per Eduardo, inoltre, è presente nella predilezione di Scannasurice per uno studente, con una chiara eco di “Gennariniello”, mentre, nel racconto di Totore e Nannina, le atmosfere di “Questi fantasmi” sono ripensate nell’ottica del mistero, visto che “a casa è intonaco e divinità: guai a chi nun ce crer”. La coppia con la figlioletta va ad abitare in un immenso palazzo “spagnolesco”, dove la piccola passa dal pianto più disperato al riso più assurdo, finchè una voce (il munaciello? I defunti? Gli angeli?) esorta i genitori, dopo aver riempito di monete d’oro le fasce della bambina, ad abbandonare il palazzo, che crolla pochi istanti dopo la fuga dei tre e del numero civico non si avrà mai più traccia. In quel labirinto che è la vita, infatti, dove gli eccessi della gioia e del dolore possono coincidere, la vera fortuna si ottiene offrendo una possibilità a quella dimensione incategorizzabile che si annida ben oltre l’assodato e che non teme di abbattere quel che appare saldo. Le note della Boheme e di Madame Butterfly, nella loro dolcezza struggente, esprimono un tenace desiderio di  rinascita e di abbandono a una carne che sia finalmente rifugio e non segno di esclusione. In un simile contesto, appare naturale che gli abitanti di Napoli siano sorci, cioè creature che sopravvivono traendo energia dal basso e giocando con la sorte, di cui sono metafora i tarocchi appesi, ma la Vergine che progetta di sterminarli, versando curaro nell’acqua pubblica, pur essendo a sua volta protesa invano verso il sole, cioè la libera essenza del vivere, incarna il tentativo di razionalizzare, rinchiudere in uno schema prevedibile chi, con impudenza, non vuole essere addomesticato. La conclusione è tragica: Scannasurice si toglie la vita proprio bevendo al tubo dell’acqua avvelenata. Eppure nulla muore davvero nella città di Moscato: troppi sogni attendono di essere sognati, nuove voci attendono solo di risvegliarsi dal buio più profondo. 

“Lido per mari unici”, danzando col passato

 

E’ facile considerarlo superato, archiviato, innocuo, ma il passato sa essere beffardo: si ripresenta quando vuole, cambia le coordinate e l’assodato muta subito prospettiva. È un viaggio interiore a ritroso che cambia sempre direzione “Lido per mari unici”, lo spettacolo, nato all’insegna della produzione artistica di Progetto L’Ait, scritto, diretto e interpretato da Francesca Morgante, che ha riscosso un pieno successo al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno. Le scene portano la firma di Vincenzo Fiorillo e Paolo Iammarrone, Angela Rosa D’Auria è aiuto regia, Luciana Donadio cura i costumi e Ivo Parlati le musiche, mentre il light designer è Sebastiano Cautiero e la voce off appartiene a Luca Lombardi.  L’illustrazione della locandina è di Simona Fredella e la grafica è di Francesco Luongo. Quando lo spettacolo ha inizio, la protagonista ascolta al cellulare i messaggi di un compagno troppo distratto dal proprio ego per perdonarle la sua dinamica vita di attrice e quindi decide di abbandonarla, “di prendersi un tempo”, ma non definitivamente: dove potrebbe mai trovare un’altra come lei? Sin dal principio, dunque, si ha un senso di sospensione, un oscillare tra libertà e legame che però opprime chi lo prova e la spinge al gesto di vomitare nella borsa che porta sempre con sé, correlativo oggettivo di un mondo affollato di ricordi. Ed è proprio allora, nello schianto del dolore, che si ripresenta alla mente la nonna, la presenza più affettuosa nella vita della giovane, con il suo ricorrente incoraggiamento “Stringi i pugni a nonna!”. Da quel momento, dalla nascita fino al presente (se è lecito chiamarlo così: sono le sensazioni a generare il tempo), la protagonista si trasforma nelle figure che ha incontrato: la madre amorevole, la suora dal piglio marziale alla colonia, la signora al lido che crede che i laboratori artistici abbiano a che fare con l’Asl, il venditore che promette meraviglie, il goffo ragazzo che la palpeggia proponendole una relazione, il vedovo disincantato. L’interprete canta le canzoni di una stagione ormai trascorsa, da “Aveva un bavero” a “Il mare”, ridiventa la bambina vivace che raccoglieva tutte le proprie forze per tuffarsi, è di volta in volta adolescente o donna a seconda di quello che una parola o un’immagine suscitano in lei. La scelta di interpretare tutti i personaggi risulta, quindi, naturale: siamo il risultato delle nostre relazioni e delle nostre attese, ma il padre, cercato e invocato nella gioia, nell’inquietudine, nei momenti bui, non è interpretato da lei. È, infatti, la risposta e il calore che ci si aspetta dall’esterno, perché se è vero, come dice la madre, che siamo spiagge e il mare, evocato da un ombrellone, una sdraio, una striscia di blu, è la realtà da attraversare, è altrettanto vero che si è facilmente in affanno, soprattutto se ci si rinchiude in una trappola. E la trappola scatta nel momento in cui “il principe consorte” ritorna: l’amante le impone la propria volontà e lei si ritrova circondata da scheletri di ombrelloni, chiamando angosciosamente in aiuto il padre. Quegli oggetti simboleggiano, oltre al predominio maschile, la morte delle illusioni giovanili, le costrizioni sociali, tanto che uno di essi rappresenta la statua di San Giovanni portata in processione, come si addice alle brave ragazze. Sarà il ricordo di una canzone a darle la forza di liberarsi, dato che il passato non è solo causa, ma energia infusa nel presente. Quando getterà felice all’aria una grande quantità di petali (la consapevolezza è un rifiorire), tornerà il monito della nonna: bisogna stringere i pugni anche e soprattutto per difendere il proprio sguardo su quel mare che è il mondo.