Se credete che i santi siano quelli che vi osservano, tra
il superbo e il commiserevole, dalla nicchia di una chiesa, siete fuori strada.
Sono gli ultimi, i reietti, quelli a cui non dareste tre soldi, sempre pronti a
ricordare che è impossibile e illogico sfuggire alla propria umanità. Lirico e
graffiante, “Rumba” è lo spettacolo che un ispirato Ascanio Celestini ha
diretto e interpretato, al fianco del musicista Gianluca Casadei, presso la
Sala Pasolini. Attraverso la voce di Agata Celestini e le immagini dipinte di
Franco Biagioni, l’interprete vuole dar voce alla marginalità non solo per
riscoprirne l’intimo valore nel momento in cui non è riconosciuto o calpestato,
ma anche per indagare le nevrosi e i lati oscuri di un sistema troppo
preoccupato di autopreservarsi per comprendere le opportunità che la vita –
soprattutto quella dei dimenticati- sa offrire. Perché tutti possano
comprendere lo spirito con cui San Francesco creò il presepe nel 1223, il protagonista,
che dialoga con l’amico Pietro, vorrebbe riunire, nella notte di Natale, tanti
pellegrini nel parcheggio di un supermercato. Questo luogo è già apparso come simbolo
dell’alienazione nel film di Celestini “La pecora nera” e in effetti si presta
a diventare lo scenario di un grigiore opprimente, in cui gli individui siano
solo numeri e mansioni. È proprio davanti a questo contesto che si può
riscoprire il fascino di una figura come quella del santo di Assisi che, pur
nel rispetto delle strutture politiche e sociali, sa essere al di fuori di
facili categorie. Ecco allora che il regista diventa cantastorie di Francesco e
di coloro che intrecciano la propria vita con il supermercato. Da un lato,
abbiamo un giovane nobile che matura progressivamente la totale devozione a
Cristo e il conseguente rifiuto di ogni bene materiale a favore dei più poveri,
chiedendo perdono a Dio perché, dopo essere sfuggito con gli altri frati al
pestaggio di un uomo che non ha voluto accoglierli, ha intonato un canto
stonando (la purezza dell’autore del Cantico lascia sempre stupefatti).
Dall’altro, si susseguono nel market personaggi fuori dall’ordinario proprio
nella loro semplicità. Giobbe, l’analfabeta che orina nel thermos del preposto
ed è un modello di pazienza, intuisce nell’arrivo di un pacco la presenza di
quella vecchia che passa in forma di cane, di gatto, ti guarda e ti porta via
(chiara immagine della morte) e quando muore, il pacco è poggiato sul rullo con
la dolente solennità di chi accompagna un feretro. Joseph è un africano che
lavora come becchino, si ritrova su un’imbarcazione per sfuggire agli orrori in
Libia e subisce terribili violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, per
poi essere cacciato dal supermercato. Nel ritrovare il compagno di viaggio
creduto morto, diventa impossibile comprendere se a morire sia stato Joseph o
il suo amico: chi ha subito i mali del mondo, infatti, solo perché è più facile
colpire che capire, muore e rinasce a se stesso innumerevoli volte. È tuttavia
necessario ricordare i nomi dei morti per seppellirli nel cuore dei vivi e
diventa urgente ricordare Lamine Hakimi, il ventottenne algerino a cui sono
stati negati i farmaci per giorni e che li ha ingeriti tutti di colpo per
sottrarsi all’inferno del carcere. Molti incubi, inoltre, nascono dalla
pochezza che non sa spingere lo sguardo oltre se stessa. Di qui il ritratto del
razzista cocciuto, che non si rassegna alla perdita del proprio figlioletto,
colpito da una tara familiare, e al fatto che uno zingaro della stessa età sia
ancora vivo, continuando a salmodiare le consuete bestialità contro i
“diversi”. La cattiveria, del resto, è dei ricchi, di quelli che si possono
permettere la pistola con cui i fascisti sparano a Capodanno. Tutti coloro che
non corrispondono ad attese tranquillizzanti sono respinti e cancellati. Che lo
stesso Francesco non viva una perfetta armonia con i suoi seguaci è evidente
nella battuta in cui si afferma che “Frate Elia è furbo, diventerà presidente
del consiglio. Anzi, peggio, seconda carica dello Stato”. E quando l’uomo che
ha cercato la pace con il Sultano muore, Santa Chiara comprende cosa accadrà di
lui. Sarà presentato come un essere perfetto, distruggendo tutto quello che ha
scritto prima della biografia di Bonaventura, per poterlo confinare lontano da
qualunque compromissione dello status quo. Come si può raggiungere, in effetti,
quello che è eccelso? Meglio accontentarsi del proprio egoismo. Se la
sconvolgente generosità di Francesco viene edulcorata e nessun pellegrino
giunge nel parcheggio, la sconfitta sembrerebbe totale. Non è così: la
mangiatoia del primo presepe è vuota, perché il Salvatore nasce dovunque ci sia
un emarginato. Prostitute, barboni, invisibili sono, quindi, tutti destinatari
della santità, tutti riscattati da un mondo che non li vuole, compresa la pazza
“dalla testa impicciata” che è la sola spettatrice, perché anche la follia,
nella sua imprevedibilità, ricorda che la natura umana va compresa, ascoltata,
vissuta senza filtri. Lo spettacolo si apre sulla visione di innumerevoli
stelle e si chiude sull’impossibilità di contarle: tanti sono i pensieri che
attendono di nascere, le persone da scoprire oltre ogni pregiudizio.
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