“Amleto FX” tra costrizione e libertà
Il principe di Danimarca si
interrogava sull’essere e il non essere. E se nell’incoerente epoca
post-moderna finissero col concidere? Se la vera essenza consistesse nel morire
a tutto ciò che giustifica lo stare al mondo? L”Amleto FX” di e con Gabriele
Paolocà ha sedotto la platea di Mutaverso, la manifestazione diretta da Vincenzo
Albano presso il Centro Sociale di Via Cantarella. Il capolavoro shakespeariano
diventa specchio dei tempi. Poiché tutto si gioca tra il corpo e le sue
nevrosi, il protagonista è sospeso tra infanzia e adolescenza, tra un biberon
pieno di spumante e cupi propositi di una rivalsa che non avverrà mai,
inchiodato alla perdita del padre che toglie fiato a ogni prospettiva (la voce
bambina con cui declama “X Agosto”) e a presenze ridotte a voci e messaggi
della chat. Che il teschio sia un’immagine al computer e che tutti i personaggi
siano interpretati da Paolocà, estremamente versatile nel ricorrere a un
umorismo nerissimo e crudele, è la naturale conseguenza di un solipsismo
incoraggiato dalla nuova tecnologia fino alle estreme conseguenze, come mostra
lo sfondo che tratteggia su una persiana le linee della camera da letto di Van
Gogh: lo spirito non allineato è confinato in uno spazio che riflette quanto di
irrisolto c’è nella sua mente. L’immaginario odierno è onnivoro, ma non sazia l’esigenza
di riconoscersi fino in fondo nella propria vita e assaporare una qualsiasi
libertà. Quando il monologo di Amleto è intessuto di citazioni cinematografiche,
da “Titanic” a “Rocky” e lui stesso si trasforma in Amy Winehouse per celebrare
la propria amarezza, in Kurt Cobain per ripetere ossessivamente il richiamo
materno a vivere e in Marylin per
cantare gli auguri allo zio, la sua identificazione nei miti (non a caso, tutti
suicidi) è un tentativo di dare forza alla propria identità dispersa nella
vacuità di un tempo che macina tutto troppo in fretta. Nell’oscillare tra
bisogno di annullarsi e falsi equilibri, il protagonista assiste alla scomparsa
di ogni senso. Non resta che bruciare la propria immagine del profilo (la veste
nera sospesa su un fascio di rami, come sospeso è chi non sa scegliere tra
costrizione e una nuova strada), spingere al suicidio Ofelia -che non riconosce
“Il canto popolare” di Pasolini, dato
che la coscienza è un fantasma come lei- legando al salice il suo smartphone
che la riprenda nella sublime dipartita, rimandare la propria impiccagione per
andare a una festa. Il padre di Amleto è un video dimenticato nella cartella
documenti che gli canta “Vedrai vedrai” di Tenco. Ma non può cambiare nulla
nelle sabbie mobili che un’anima è riuscita a costruirsi.
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