Cosa
pensare di un regista che sabota la propria messinscena, giustificando tutto
sotto il comodo ombrello della contaminazione? Un vivo disagio ha colto lo
spettatore de “La tempesta” shakespeariana, in scena al Teatro Verdi di Salerno
per la regia di Luca De Fusco. Gli elementi positivi, malgrado tutto, non
mancano: la saggezza innamorata dell’utopia, pur nello squarcio di un miraggio,
del Gonzalo tratteggiato con raffinata padronanza da Enzo Turrin; la solitudine
del severo Prospero di Eros Pagni, profondamente conscio della vanità del
tutto; l’ammaliante Gaia Aprea che, con l’ausilio di una maschera, impersona
Ariel e Calibano, perché devozione e ostilità sono più vicine di quel che si
creda. La biblioteca del mago come archivio dell’immaginario artistico del
Novecento difende un’idea – non stabile né univoca- di ordine da contrapporre
al caos e l’equipaggio approdato sull’isola,
a volte fisso in forme plastiche su una pedana mobile in quanto proiezione della visione del mago, strappa i fogli da un leggio una volta
formulati i pensieri, identificando nella dimensione onirica arte e vita. Nulla
di nuovo sotto il sole? Esiste comunque, almeno nel primo atto, uno sguardo
organicamente orientato sul testo, oltre a un’ottima prova di tutto il cast.
All’apparizione di Trinculo e Stefano, però, si precipita in una volgarità, che
sarebbe eufemistico definire da taverna. Atti e parole, che non risparmiano
riferimenti ai neomelodici, rendono di colpo la scena inferiore a qualunque
avanspettacolo di terz’ordine. Non è l’avvilimento del registro espressivo in sé
a essere sotto accusa (il teatro deve essere immune da pregiudizi) ma il suo
essere asservito a un ammiccamento di nessun valore alla platea, dando per
scontato che la mescolanza di differenti approcci legittimi in ogni caso una
riscrittura. Altrettanto imbarazzante è l’apparizione di una Marylin che
dovrebbe incarnare la legge del desiderio, vero movente di ogni azione umana,
ma che si rivela concessione del tutta gratuita al gusto di un pubblico che non
ama essere disturbato nel suo nulla. Che la coerenza narrativa sia una convenzione
superata in nome di una libertà non addomesticabile, è salutare per chi ama il
palcoscenico. Quando però un intero impianto registico ricorre a scelte
inutilmente effettistiche, non resta che prendere atto di un bluff, che nasce
dalla superbia. Credersi al di sopra di ciò che si allestisce è un vicolo
cieco.
martedì 17 dicembre 2019
“Berlino, cronache del muro”, un’anima divisa in due
“Berlino
è ciò che sono i testicoli per un uomo. Quando voglio far strillare
l’Occidente, schiaccio Berlino”. Non si può affermare che Kruscev difettasse di
concretezza e schiacciare una città era all’epoca terribilmente facile. “Berlino,
cronache del muro” è l’accurato percorso storico che Ezio Mauro ha proposto al
pubblico della Sala Pasolini con Massimiliano Briarava, appassionato compagno
di viaggio nella narrazione. Le immagini alle spalle dei due lettori sono
insistentemente speculari, a dimostrare come, nonostante tutto, le due anime
della capitale non possano fare a meno di riconoscersi l’una nell’altra. La
divisione di Berlino in quattro settori d’influenza non appaga i vincitori del
secondo conflitto mondiale, date le tensioni che li dividono. La Nato e la Ddr
dimostrano che la guerra fredda è un partita che si gioca senza esclusione di
colpi. La difesa del regime, come stabilisce Ulbrich, leader del partito di
unità socialista di Germania in accordo con Kruscev, richiede misure drastiche
e il 13 agosto 1961 famiglie e amici sono separati da un muro che chiederà un
osceno tributo di sangue a chi desidera la libertà. Indimenticabili le vicende
della coppia di posdani, che, pur di raggiungere l’ovest, si gettano in un
fiume con il proprio bimbo di diciotto mesi in una scatola di latta o la
bastonatura inflitta a una madre solo per aver osato salutare la figlia al di
là della linea di fortificazione. La Stasi, la polizia segreta della Ddr, non
conosce riposo. Ha un informatore ogni cinquanta abitanti; non è possibile
neppure tagliarsi la barba o sposarsi senza la sua autorizzazione; 100.000
lettere sono intercettate ogni giorno; abiti e libri sono contaminati con
sostanze radioattive, per rendere sempre reperibili coloro che li usano. Perfino
le cabine telefoniche si illuminano di colpo, se la chiamata è diretta a un
Paese straniero. La situazione di Christa Wolf, spiata e al tempo stesso fonte
di informazioni per i funzionari che agiscono nell’ombra, mostra
l’irrisolvibile coesistenza di colpa e di aspirazione a una società diversa. Nessuna
deformazione del reale è tuttavia duratura. Si ha un bel dipingere la Ddr come
un paradiso in cui l’amore libero garantisce alle donne il doppio degli orgasmi
rispetto alla sezione occidentale della città. La pervicacia di Honecker, che
rasenta la cecità nella consacrazione alla causa, non meno della moglie Margot,
che vuole giovani in armi a difesa del socialismo, è destinata a essere
sconfitta dalla storia: quando il miraggio dell’indipendenza brilla con maggior
decisione, la perestrojka segna il disfacimento della visione comunista. Oggi
il crollo del muro dovrebbe risuonare con inaudito fragore, per ricordare che
nessun guinzaglio si può stringere a lungo alla gola di un popolo.
Iscriviti a:
Post (Atom)