Lo
si può ignorare, deformare, tenere fuori dalla porta, ma si ripresenterà con la
cocciutaggine di un bambino capriccioso. Il passato vuole riappropriarsi del
presente e non c’è occasione migliore del rituale natalizio, che si impone
inesorabile tra mandarini e continui tentativi di accendere l’albero. Storia
solo all’apparenza semplice, “Quasi Natale”, scritto e diretto da Francesco
Lagi, con Anna Bellato, Francesco Colella, Silvia D’Amico, Leonardo Maddalena,
ha fatto da preludio, al Teatro Ghirelli, alla quinta stagione di Mutaverso, il
progetto artistico di Vincenzo Albano. Una madre costretta in ospedale, che non
compare ma di cui si avverte di continuo la presenza, tenta invano di
comunicare per telefono qualcosa ai tre figli: Isidoro, inquieto e sensibile
spirito del focolare; Chiara, che fatica a fare i conti con la propria
fragilità; Michele, non abbastanza dinamico e spregiudicato da avere la meglio
sulle dinamiche familiari. L’infanzia ritorna nei gesti, negli scherzi, negli
oggetti, persino nei rancori mai superati e nelle distanze che raggelano.
Testimone e complice di questa regressione dolce e crudele è Miriam, la donna
di Michele, non a caso somigliante alla madre di lui, che, tra leggende navajo
ed empatia, esorta a udire “il suono del tempo”, a cogliere ciò che si ostina a
non morire. Gli interpreti alimentano una continua tensione emotiva, facendo
emergere, con delicatezza mai innocua o con una sofferenza che tende a implodere,
le ambiguità del quotidiano (un acquario che ricorda troppo da vicino le vite
dei figli), le sensazioni di disagio e il bisogno di calore annidati
nell’ordinario. Non occorrono riti propiziatori (la collana che Miriam strofina
tra le mani con cura): ciò che è già accaduto è nelle viscere, vigila, mette in
discussione, tende trappole. La messinscena lascia affiorare l’amarezza e lo
struggimento propri di chi è sospeso tra un’epoca irrecuperabile e un
equilibrio che tarda a concretizzarsi. Resistere, tuttavia, è inutile: il
passato non è, come è stato scritto, un secchio di cenere, ma una porta che
attende pazientemente di essere aperta. Le polpette materne conservate in
freezer, cucinate e amorevolmente mangiate dai protagonisti, alludono alla
necessità di nutrirsi di sentimenti creduti morti per (illudersi di)
ricominciare. Il telefono ora può squillare quanto vuole, per annunciare il
decesso della donna; tanto, “tutto ha un’anima e tutto rimane”.
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