Massacrato
per una birra. La vita può essere davvero il peggiore incubo, soprattutto se
gli assassini indossano una divisa. Applaudito al Teatro Ghirelli nell’ambito
della rassegna Casa del Contemporaneo, “Storia di un
oblio”, diretto da Roberto Andò, vede
all'opera un appassionato Vincenzo Pirrotta, che si consacra totalmente a un
ruolo scomodo. Lo spettacolo, basato sul testo di Laurent Mauvignier nella
traduzione di Yasmina Melaouah, pone al centro la vicenda, ambientata in
Francia, di un uomo che, in preda alla sete, beve una birra in un supermercato
senza pagarla. È l'inizio di un'orrenda aggressione da parte di quattro
vigilantes, che lo uccideranno di botte, aggrappandosi a mille alibi e menzogne
pur di scaricare sulla vittima ogni responsabilità. L'urgenza della narrazione,
il bisogno di restituire dignità a un corpo dimenticato, lo strazio di
comprendere ciò che sembra assurdo, ma che invece si annida nella natura umana
(il piacere di dimostrarsi forti, schiacciando gli inermi) inducono Pirrotta a
esporsi continuamente a un contatto diretto col pubblico, che infatti siede in
parte sul palcoscenico, a poca distanza da lui, mentre veglia, all'inizio della
rappresentazione, quel che s'intuisce essere un corpo avvolto nel telo buio di
un obitorio. Ogni sua fibra è volta a portare alla luce quello che deve essere
cancellato da chi si crede intoccabile, in quanto appartenente alla categoria
(ma sarebbe più opportuno dire alla casta) delle forze dell'ordine. L'attore
impersona il fratello dell'ucciso, personaggio senza filtri, sempre pronto a
perdersi tra i corpi e i desideri, ma ogni spettatore potrebbe essere legato a
quelle membra martoriate. È appunto la necessità di chiamare febbrilmente in
causa chi osserva a far sì che l'interprete si sieda tra chi assiste, gli si
rivolga come se sapesse tutto da sempre,
gli mostri la foto di Stefano Cucchi, sacrificato agli abusi di quelli
ben lieti di identificarsi con la legge, quando ignorano le più elementari
forme di etica. Cucchi è solo uno dei tanti che hanno trovato la morte tra
coloro che avrebbero dovuto difendere la giustizia ed è chiara la scelta di
Andò di rendere universale il problema di inchiodare alle proprie colpe
carnefici rassicuranti agli occhi di un pigro popolo borghese. Ecco allora che
la fratellanza non può che spingersi oltre il semplice legame biologico.
Correre intorno al corpo, replicando il vano tentativo di salvarsi, indossare
gli abiti dell'assassinato, incarnarne i pensieri e le paure sono tentativi di
salvare ciò che resta di un individuo dalla facile dimenticanza in cui
seppellire qualsiasi evento apra crepe nell'ordinario. La voce fuori campo
vuole a sua volta testimoniare, chiarire, proteggere, ma torna a danno del
ritmo della messinscena, spostando l'attenzione dalla viva concretezza
dell’azione alla difesa di una tesi (l'antitesi tra umanità e sopruso), che, in
alcuni momenti, s’impone in modo artificiale, quasi “studiato a tavolino“ sulla
pièce. L'interpretazione di Pirrotta resta memorabile per la generosità
con cui crea un ruolo ben distante
dall'enfasi e dalla propensione al ricatto psicologico. Il dolore e la tenera
empatia che lo guidano nel ritratto di un uomo che chiedeva solo di vivere
ricordano che ogni esistenza deve proteggersi dallo stesso, cupo rischio :
divenire bersaglio di individui disposti a colpire sotto la maschera della
rispettabilità.
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