Non c’è madre al mondo che non abbia rimproverato la
figlioletta per essersi succhiata continuamente il pollice; nulla di strano, si
direbbe. Eppure quante sensazioni irrisolte dietro un gesto così innocente.
Accolto con favore presso il Piccolo Teatro del Giullare, “Il dito in bocca” di
Rosario Galli, per la regia di Andrea Carraro e l’aiuto regia, le luci e l’audio
di Virna Prescenzo, vede in scena una Irma Ciaramellla alla quale è impossibile
togliere gli occhi di dosso per la sua magnetica prova interpretativa, in cui
derisione, tormento, desiderio di pace sono espressi con spiazzante sincerità.
Fondamentale, nella riuscita dello spettacolo, anche la superba traduzione in
lingua napoletana del compianto Francesco Silvestri che riesce, in tal modo, ad
ampliare le suggestioni del testo, rendendolo molto coinvolgente. La
protagonista, pronta, un tempo, a succhiare il dito ogni volta che ha sfidato
l’arido mondo adulto, scende in uno scantinato, trasparente immagine del
rimosso, dove oggetti incellofanati (ricordi mummificati, ma non innocui),
abiti e mobili le ricordano tutta la sua vita in un colloquio tagliente con la
madre, che, nel finale, risulterà morta. Non è, però, morto ciò che le ha
sempre divise: la donna, mai empatica nei confronti della figlia, ha voluto
dominarla senza aprirle davvero il proprio cuore, come rivela la battuta “Ngopp
o fatt ro parlà, t’enn semp iut e scarp stritt”. Il ritrovamento di Oreste, un
cero su cui sono disegnati occhi verdi, amico nell’infanzia, mescola con
inquietudine il passato e il presente: il primo amore, il marito violento che
ha voluto imprigionarla, la figlia Flavia, considerata da lui un peso, la fuga
da un contesto asfissiante, il disprezzo della sorella, che ha vissuto di
illusioni non meno della madre, decisa a farsi seppellire con l’abito da sposa
per consacrarsi fino alla fine a chi non c’è più. Che l’oggetto apotropaico sia
proprio un cero è beffardo: l’inquietudine del personaggio che si dice “sicura
e orgogliosa” non conosce, in effetti, la luce della liberazione da un vissuto
amaro e la lettera della madre al padre, che l’ha abbandonata per il sospetto
che la seconda figlia non fosse sua, induce a una regressione. Con aria da
bambina, l’interprete invoca Gesù per il ritorno del padre, scarabocchiando sul
foglio, per poi maledirne la foto: è, infatti, colpevole di non averla portata
con sé e di averla, quindi, privata di un’esistenza diversa. Gli elementi sul
palco, infatti, alludono tutti alla perdita. Il proiettore che non mostra
immagini rinvia a un legame che non è fiorito come avrebbe potuto, il telo
bianco che s’innalza dopo la chiusura (fuori campo) della bara, lasciando
scoperta una parete nera, esprime l’inabissarsi della figura in scena nella
propria fanciullezza tradita e assetata d’amore. Reggendo in mano Oreste
acceso, rifiuta di vedere per l’ultima volta chi l’ha generata e che le
ripeteva sempre di averla trovata tra gli zingari. Mentre dice che non è sua
madre e che l’ha trovata per strada, soffia sulla candela e scompare nel buio.
La bambina ha voltato le spalle a chi non l’ha accolta, ma l’adulta, che ha
creduto di diventare, non è giunta a soccorrerla. Certe catene non si spezzano.
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