Che uno scrittore dia prova
di uno stile piacevole non è cosa poi così rara. È invece un’eccezione che
quella piacevolezza nasca da sensazioni che mostrano l’aspetto sorprendente
dell’assodato e da un’ironia a suo modo aristocratica, ma ben distante dalla saccenza
e dall’autocompiacimento. È quello che sperimenta il lettore di “Vite in
pericolo” di Pippo Montedoro edito da Qanat. I racconti sospesi tra memorie e
fantasie s’insinuano con leggerezza (una leggerezza gravida di colori e sapori
che si ritrova nella prefazione di Salvo Piparo) e di colpo il mondo di
Montedoro diventa il nostro, che sia la cella dell’Ucciardone, la Vucciria o un bosco in
cui non ha più senso distinguere l’animale dall’umano. L’autore ama definirsi
goloso ed estende questa caratteristica al suo lessico colto e carnale. Le parole
sono in effetti scelte con autentica golosità, desiderate per la loro
concretezza e spesso per la loro dolcezza, si offrono agli occhi e al palato
con una fisicità spudorata. C’è il rischio di non guardare mai più con gli
stessi occhi la flanella dopo la descrizione erotica che il libro ci regala in
uno dei molti pezzi di bravura. Ciò che unisce le parti dell’opera è la passione
per il gioco, concepito come sovvertimento, urgenza di riscrivere ciò che si
vorrebbe fissato definitivamente. I protagonisti di “A.D. duemilaventisette – sorrisi” giocano con l’immagine stereotipata che gli
altri hanno (quando ce l’hanno) di loro; in “Sentimenti senza quartiere”
si gioca con l’avidità di pusher stranieri; in “buon Vino a cattivo Gioco” il
viviri (vivere) dipende dal giusto rapporto col viviri (bere); in “1973,
Ucciardone - lectio elegantiae”
i legami inattesi della reclusione mandano a gambe all’aria il modo perbenista
di creare relazioni. In “non ci pensare, Lazzaro” la posta è il
desiderio irrealizzato. “Ready Made” deride nella sua lapidarietà la vita
equilibrata, “Fiato” spiazza di continuo la percezione di chi legge, “E il
ritorno lo faceva a piedi” prende di mira il genere fantasy e la pretesa di
riscattarsi dai propri limiti. Il gioco
pervade anche l’appendice, “Il pallore d’Achille”. In “Quistiuni” le domande al
Piè Veloce rivelano, tra assonanze e paranomasie, l’ostilità verso la superbia
del potere. La “pulita” coscienza borghese è sarcasticamente punita in “Fine (sceneggiatura
per video fasullo)”, mentre
l’esaudirsi di una volontà porta a uno pseudo-trionfo beffardo in “Le
richieste di Felice”. “Di Eos molto presto” illustra l’alto prezzo da pagare
per l’estinzione del genere femminile sul piano mitologico, mitopoietico,
sociologico. Si ha poi la sintesi in dieci parole di principio e fine in “Serata
(romanzo completo)” e i problemi striscianti, ma non irrilevanti di una lumaca in “Chi va piano… No, Ah?!”. E se la convenzione
in tutti i suoi volti è il bersaglio dello scrittore, ben si comprende l’uso
ossessivo della virgola interrogativa, che imprime all’andatura della frase un
ritmo del tutto autonomo. “Vite in pericolo” è però anche un atto d’amore
indiscusso per il teatro, come mostra “Colonia penale e altre fragranze”, che rievoca i fasti della compagnia Curò,
tra i cui fondatori c’è il Nostro, attiva a Palermo e non solo nella felice e
contestatissima stagione degli anni Settanta, vivi nel bianco e nero ammaliante
delle foto di Letizia Battaglia. Allora era vitale che il palcoscenico si
spingesse oltre se stesso, che l’azione scenica divenisse un campo di forze
pronte a fare a pezzi qualunque gerarchia mentale e fisica, che il nonsenso si
tramutasse in possibilità di senso da condividere e magari calpestare con gli
spettatori. Quella di Curò era una lotta senza respiro contro l’acquiescenza al
sistema, un inno all’inventiva, un oltraggio a quelle prigioni che sono le
categorie, una riflessione a briglia sciolta sull’ambiguità volutamente
irrisolta di ruolo, luogo, parola. Montedoro resta uomo di teatro anche
nella scrittura. Lo evidenzia la costruzione della tensione, la cura riservata
alla mimica dei personaggi, il rapporto quanto mai duttile col tempo della
narrazione. E se, come recita la frase di Piero Ciampi citata nel testo, “Il
corpo è un sublime/atroce porco”, la materialità imperfetta, evocativa e
seducente di questo volume è la migliore risposta a ogni forma di ottusità.
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