“Me ne intendo di si”, dice
il dottore che crede di avere nelle proprie mani la donna che gli sta di
fronte. Ma non si può chiedere alla principessa della Colchide di rinnegare se
stessa e ciò che è scritto nella carne torna a sconvolgere ogni punto di
riferimento. “Close Up Medea” è lo spettacolo che Teatrazione Teatro ha
proposto con successo all’Arco Catalano Fest di Salerno. Ispirata liberamente
al “Purgatorio” di Ariel Dorfman, la messinscena è costruita su di una
corporeità che si fa eco di quel che si vorrebbe cancellare: l’impossibilità di
concepirsi separati da ciò che ha mutato per sempre un percorso, il desiderio
di protendersi in un altrove da riscrivere, un amore malato per quel che è
stato distrutto ma sopravvive nel ricordo. Molto più di una follia a due. Giasone
e Medea sono di volta in volta se stessi e i propri medici, rivolti a una
redenzione che non si concretizzerà mai (un Igor Canto che oscilla sagacemente
tra flemma e fragilità e una Cristina Recupito cosi intensa da lasciare
interdetti) non perché l’identità sia quanto mai labile, ma perché passato e
presente, azione e resa dei conti sono solo i nomi da dare al rapporto
irrisolvibile con ciò che si è stati e si potrebbe essere. Quando all’inizio
della pièce i due emergono da un drappo rosso come da una crisalide e si
allontanano solo all’apparenza, uniti da esso, che ha il colore della vita e
del sangue, esprimono quella prigione inviolabile che è l’io, costretto a
contemplarsi e rivivere nell’altro. È in quel drappo che viene avvolta colei
che ha osato divenire tomba dei suoi figli e a lei viene consegnato il pugnale
dell’uccisione: il ricatto che inchioda il colpevole alla colpa per manipolarlo
meglio. La piccola telecamera che filma gli incontri allude a una logica
superiore in cui inquadrare la vicenda, ma è solo l’ennesimo inganno di chi si
creda superiore alle pulsioni e all’irrazionale. “Non saprei dove andare”,
dicono i personaggi vestiti da medici, come a dire che non si può guardare
dall’alto la forza oscura del desiderio e della distruzione, ma solo lasciarsi
attraversare da essa. E quando Medea contempla con una tenerezza dolente la
stoffa rossa (la vita persa eppure presente) e i due tornano a distendersi al
suolo sulle note di “Cu te li dissi” d Rosa Balistrieri, leit-motiv di quel che non è possibile
dimenticare, il bisogno ancestrale di perdersi in chi è di fronte inghiotte
tutto e il corpo dell’uno si fa confine e orizzonte del corpo dell’altro.
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