Non è poi così orrendo fare
ciò che non piace (la fellatio a qualcuno che conta, per esempio). Si resiste.
Ci si abitua. Non è forse la resistenza che ha fatto grande questo Paese? Non
si dimentica il caustico e feroce percorso di degradazione di “La merda”, lo
spettacolo di Cristian Ceresoli con Silvia Gallerano, accolto con entusiasmo al
Centro Sociale di Salerno. L’evento ha fatto parte del cartellone “Per voce
sola – Parole della nostra scena” ideata e diretta da Vincenzo Albano e
sostenuta dalla rivista Puracultura. In un climax disturbante scandito dai
segmenti narrativi Le Cosce, IL Cazzo, La Fama, nuda su un alto sgabello, la protagonista
racconta la sua scalata al successo, ovvero la partecipazione a uno spot in cui
il canto dell’inno nazionale deve essere eseguito da una donna sovrappeso. La
nudità è un aspetto coerente della pièce. L’etica è etimologicamente legata al
concetto di ethos, abito, il sistema di valori di cui rivestirsi per
distinguersi e trovare un senso, ma non c’è traccia di questo nella vogare
Italia che fa dell’apparenza il suo culto. Il corpo va mostrato, esibito,
offerto come merce. Ad essere nudo, cioè pronto a esplodere senza filtri, è
l’istinto di sopravvivenza che coincide col bisogno assoluto di essere
riconosciuta e ammirata dal pubblico. Sono gli occhi degli altri a sancire
un’esistenza, a rivestirla di un valore. E poiché nulla viene regalato, chi
vuol vivere sotto i riflettori deve essere una predatrice, anche se ripugnanza
e ambizione si mescolano. Di qui l’insistenza sulla dimensione orale,che
approda al cannibalismo e alla coprofagia: mangiare le proprie cosce perché non
consone al comune canone di bellezza, i “cazzi” di chi possa assicurare la
notorietà, i propri escrementi per non perdere i chili accumulati in vista
della partecipazione televisiva. La posizione dell’attrice in scena rimanda a una
frustrazione che la consuma. L’urgenza di elevarsi rispetto al contesto rivela
una mostruosità speculare, dato che chi la circonda oscilla tra vacuità e
opportunismo, a eccezione del padre, devoto all’ideologia dei Mille e non a
caso suicida: il passato, specialmente quello circondato dalla gloria, risulta
stantio in un’epoca senza memoria e remore. Nel deformare la bocca, la voce e i
gesti con una mobilità espressiva che ha dello stupefacente, la Gallerano incarna un
tempo sigillato nel proprio nulla. E quando intona dolcemente l’inno prima che
il buio l’avvolga, è ormai certo che su questa Italia (ma il discorso diviene
universale) è ormai calata definitivamente la notte.
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