“Santo Mouse, Santo Klaus,
Santo Cell, Santo Nick, Santo Auditel…”. Davvero singolare, la preghiera che percorre
la vicenda sulla scena. Ancora più singolare, però, è assistere a un’umanità
che ha deciso di dissolversi in uno scenario virtuale. Applaudito al Piccolo
Teatro del Giullare di Salerno, dove è stato presentato in anteprima nazionale,
“Trittico del mio byte” di e con Luca Trezza ha costituito la seconda tappa di
“Per voce sola”, la rassegna diretta da Vincenzo Albano che si avvale del
sostegno della rivista Puracultura. Il mondo che l’artista salernitano porta in
scena è un deserto popolato da fantasmi e da comportamenti stereotipati in cui
le pulsioni entrano in rotta di collisione con una solitudine impossibile da
scalfire se non nel sogno, nell’allucinazione, nel chiamarsi fuori da uno
spazio tanto più claustrofobico quanto più appaia privo di confini. Nel primo
monologo, “Abbokkapertaà”, la
descrizione della madre cercata con disperata ostinazione è rivelatrice: “Era
alta pressappoco così, un cellulare non ce l’aveva, non aveva nemmeno una
bacheca”. La donna non ha diritto di cittadinanza in un contesto di riti e
gesti all’insegna dell’omologazione; non c’è spazio per chi non sia
assimilabile alla rete e ai suoi dettami. La perdita della madre è perdita
anche della propria ragione di esistere: quando il protagonista immagina di
essere divorato da lei, la carne sta rivendicando la sua supremazia su tutto
quello che le è estraneo. E solo un cantico –che con intento metateatrale è
l’opera in sé- può annullare distanze, mantenere vive le memorie, recuperare un
senso. La necessità di raccontare- attraverso un linguaggio che mescola e
stravolge i registri più disparati- tenta sempre di arginare la frammentazione
dell’io che si riflette nei gesti inconsulti e violenti di Trezza, un corpo che
ha bisogno dell’eccesso, del violento protendersi per ricordare a se stesso di
non essere solo qualcosa di catalogabile. In “Neo’.melo’.Diko” le figure
proposte sono estremamente tipizzate (la ragazza “facile”, l’impresario senza
scrupoli, la nonna affettuosa, il cantante sognatore) perché in una società
affascinata dalla sopraffazione non c’è posto per chi ha un sogno da difendere.
L’egoismo di chi vuole imporsi non è meno alienante della dipendenza da
Internet, che porta a deificare i mezzi tecnologici. La reazione a una tale
complessità è leggibile nella scenografia, basata su pochi elementi: il busto
di un manichino femminile che compensa invano la mancanza e a cui scattare foto
col cellulare che non assicura mai una comunicazione reale, senza filtri, una
piccola padella che funge da sterzo o da difesa, pasta da calpestare per mimare
il rumore di una finestra che si apre. In “Racconto di fine mese verso le 3e
1\2 della notte” i rumori di un attacco sono presto soppiantati da quelli, non
meno disturbanti, della connessione. Il reduce in scena è cieco (ma cieco è
quel che lo circonda, perché prigioniero di una coazione a ripetere i propri
meccanismi) ed escluso dalla scelta di tutti di essere “sulla schermità”. E il
senso di vuoto è così profondo da togliere il respiro.
Nessun commento:
Posta un commento