Essere inchiodati a un
ruolo, a un destino? Si farebbe di tutto per sfuggire a questo copione, che si
creino gabbie peggiori o si corra incontro alla libertà. Accolto
entusiasticamente al Teatro del Giullare di Salerno, “Antropolaroid” di e con
Tindaro Granata ha segnato la seconda tappa della rassegna di Vincenzo Albano,
“Per voce sola”. Quando la voce del protagonista si fa strada nel buio
descrivendo il momento dell’impiccagione, non crea semplicemente tensione
attorno al primo personaggio sul palco (il bisnonno Francesco, umile e forte
come tutti gli uomini legati alla terra, che si uccide per un cancro), ma
allude a cappi ugualmente letali: la miseria, la sopraffazione, la legge del
più forte che costringe il nonno Tindaro a essere al tempo stesso vittima e
carnefice al servizio di Badalamenti in un omicidio mimato con gesti violenti e
dolorosi, perché il corpo narra meglio delle parole ciò che fa a pezzi
un’anima. Tutti i familiari in cui Granata si trasforma con un semplice
movimento, con una rapida inflessione, cercano di sottrarsi a ciò che li
imprigiona: zia Peppina, che ignora con dolce caparbietà la gamba offesa per
insegnare il valzer a nonna Maria Rosa, la quale fugge per un amore che le farà
del male, Nià Mena che la aiuta e vede nella giovane la possibilità di vivere
che a lei, ex prostituta, è stata preclusa, papà Teodoro alla ricerca di
un’autoaffermazione. Perfino zio Gasparino, che non vuole tenersi distante
dalla pista da ballo a dispetto della meningite (ma nella Sicilia cocciutamente
chiusa nel suo non tempo, dove la donna che conosce l’italiano è “buttana”, è
la fantasia a esorcizzare il male e la paura, per cui è stato un angelo nero a
rubare a Gasparino il pensiero quando era in fasce). Nel declinare tutte le
sfumature del tormento e della tenerezza, all’artista bastano una sedia e un
lenzuolo che diventano tomba, letto, vestito della festa, dato che sono appunto
le emozioni a dominare la scena. Dal passato rivissuto anche con ironia
(indimenticabile la bisnonna Concetta che sputa sulla lapide del marito, reo di
averla resa vedova) emerge l’ansia dello stesso Tindaro di essere padrone di
sé. Nella danza antica che sfida Badalamenti, inizia a infrangere le catene con
l’isola che pure abita in ogni suo respiro. Sulla nave che lo porta verso il
suo futuro di attore ritrova proprio il nipote del mafioso: la sua presenza è
evocata da una sola lampadina accesa sul proscenio, dato che i legami con ciò
che è stato sono l’unica certezza in un’esistenza tutta da definire. Ma non si
torna indietro. E mentre il domani si avvicina, resta in Tindaro la benedizione
della “stidda” assicurata dalla bisnonna: tanta bellezza, tanta fortuna, tanta
sofferenza. Perché è il dolore il prezzo per alzare al cielo occhi nuovi.
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