Avrebbe potuto essere girato
un’ora fa. Le mostruosità che restano impresse sulla pelle dello spettatore
sono frutto di un clima che attraversa ogni epoca: la reificazione di corpi e
anime da parte di un potere mai pago di mostrare fin dove la sua violenza possa
arrivare. Restaurato dalla Cineteca di Bologna, “Salò o le 120 giornate di
Sodoma” è tornato a stordire con il suo feroce splendore a suggello di Notte
Pasolini Atto III, il progetto che ha coinvolto le voci più vive della cultura
salernitana. La proiezione presso il Cinema Apollo di Salerno è stata preceduta
dalla presentazione di Alfonso Amendola, che ha ricordato come il “cattivo
maestro” Pasolini sia oggi più che mai un interlocutore che chiarisca i meccanismi
del disgusto e del declino in cui viviamo. Nell’intervento “Senza spargimento
di sangue”, Elio Goka, senza trascurare la forzatura pedagogica da parte del
potere che fa a pezzi il momento in cui si credono eterne le gioie infantili, ha
evidenziato come il postumo di Salò sia Salò stesso, in quanto riflessione che
contrappone la pornografia artistica a quella di consumo e disamina di come gli
uomini siano micromacchine della macchina della sopraffazione, introiettandone
la capacità distruttiva. Prendendo le mosse dalla pellicola di Fabrizio Laurenti,
“Il corpo del duce”, che sottolinea il legame fisico tra gli Italiani e il loro capo, Davide Speranza ha osservato come nell’opera
pasoliniana si distrugga il concetto stesso di solidarietà, di coesione sociale e
politica, nell’attacco al capitalismo colpevole di aver mutato in oggetti la
cultura stessa. E la guerra combattuta appunto, senza spargimento di sangue,
dalle nuove generazioni occidentali oggi mira a fagocitare il nostro tempo, a
rendere gli individui controfigure in un copione deciso dall’alto. La lettura
di “Se” di Kipling ha voluto esorcizzare l’horror vacui che si apre a ogni
passo oggi come in passato. La perfomance di Antonio Grimaldi “Io e la mia
croce” fa della morte di Pasolini un’imago vitae, la summa della sua
consacrazione straniante alla libertà di pensiero. Di qui la nudità integrale,
metafora di un approccio senza filtri né pregiudizi che era l’abito mentale
dell’intellettuale. I rumori fuori scena dell’omicidio sembrano provenire da un
altro mondo, un mondo oltre il quale si spinge già lo sguardo della vittima (ma
sono gli assassini le vittime di una disumanizzazione che li rende pedine
cieche) in un’aura cristologica che sublima il momento della fine e lo riscatta
dal buio del vilipendio e della
brutalità. Le parole di Pasolini riecheggiano nelle tenebre prima che tutto
inizi perchè bisogna opporsi all’ottenebramento della coscienza. Quando
Grimaldi avanza a braccia aperte verso l’uscita della sala, comunica un
messaggio di speranza e rinascita: svincolata dai ceppi in cui si costringe
l’individuo, la mente non allineata invita a riscrivere il presente.
Salò ha l’implacabilità di
un assioma. Chi esercita un’autorità non ammette dialettica, ma sempre e solo
un’ottica verticistica che distingua chi schiaccia e chi è schiacciato. Distinzione
a sua volta orribilmente ambigua, perché le vittime legittimano con la loro
esistenza i potenti che abusano di loro in una malsana dipendenza incrociata.
L’asfittica geometria delle figure che oscillano tra il controcampo e
l’allineamento nella medesima inquadratura mostra come il veleno della
sopraffazione avvinca ciò che dovrebbe essere inconciliabile e trova ennesima
conferma, per citare un solo esempio, nello sposalizio grottesco tra i signori
in vesti femminili e i loro amanti. Il
finale non è meno straniante. I due giovani che ballano al suono di una musica
carezzevole hanno ormai incarnato l’annichilimento. E quando il buio dilaga
nella mente, anche solo sognare un altrove diventa impossibile.
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