A volte bisogna attraversare
un oceano per raggiungere chi è a un passo da noi. Al Teatro del Giullare di
Salerno un pubblico entusiasta ha accolto “Mari”, lo spettacolo diretto e
interpretato da Tino Caspanello al fianco di Cinzia Muscolino ad apertura della
prima stagione di Mutaverso, che ha in Vincenzo Albano il suo direttore
artistico. Dopo una riflessione sulla drammaturgia contemporanea, che ha
coinvolto Franco Cappuccio (Scene contemporanee), Maximilian La Monica (Editoria e
spettacolo) e il critico Vincenza Di Vita, approdata alla lettura del suo
“Kyrie”, affascinante cortocircuito temporale ed emotivo a due voci, Caspanello
ha creato una messinscena nuda (una lenza, un secchio, lo sciabordare delle
onde) in cui l’essenzialità diviene gravida, aprendo all’infinito ciò che è
limitato. Siamo a quello che lo stesso autore ha indicato come un “un teatro a
bassa definizione”: un uomo preferisce la solitudine del pescatore sulla
battigia mentre la sua donna lo vorrebbe a casa. Lei si avvicina, si allontana,
fa per andarsene, resta con un pretesto; pur rimanendo nei pressi dell’acqua,
anche lui è di volta in volta vicino e lontano, coinvolto dal suo amore pudico
o testardamente concentrato su di sé. Il dialogo è scarno, come se alle parole
bastasse essere se stesse o non potessero esprimere altro, ma poi diventano
ascolto e rivelazione di quel che il silenzio nasconde. In un paziente lavoro
di sottrazione, ciò che si percepisce nella carne e nella mente si lascia
lambire da quello che l’accoglie e la sovrasta. La donna è la terra, lo
scorrere lento e definibile delle ore, l’attesa di una felicità, una stabilità
che vuole accogliere; si identifica con un rifugio a cui tornare. L’uomo
sceglie l’eterno presente di chi si misura con ciò che è senza limiti (il mare
che è immagine antica e nuova della vita, dell’assoluto, dell’incatalogabile).
Ogni fragilità trova la sua essenza solo specchiandosi nella forza destinata a
sopravviverle e solo nel silenzio della notte quel che ha fine e quel che non
ne ha possono respirarsi, riconoscersi. I due sono a loro volta immagine della
distesa acquatica, perchè ondeggiano tra vincolo e libertà, tra il bisogno di
fondersi e la distanza. Quando la compagna dice di aver paura del mare di notte
perché non sa dove comincia, lui le indica nella riva il punto di inizio. Dove
corpi e parole giungono all’ultimo confine, il prima e il dopo diventano parole
inutili. L’eterno accarezza la vita come fanno le onde con la sabbia. E quando
le mani intrecciate dei due si immergono nell’acqua (la prima volta per
sconfiggere ogni timore, la seconda per sentirsi parte di quel mondo liquido in
cui tutto può ancora finire e ricominciare), una lenta dissolvenza li fa
scomparire. Il buio adesso non incute spavento. L’acqua e la terra non possono
fare a meno l’una dell’altra. È in quel momento che ci si riscopre e ci si comprende, quando si volge lo sguardo all’indefinibile, a quel che
non conosce tempo e spazio.
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