Strategia, razionalità,
attento studio dell’avversario: è questo che si attribuisce al gioco degli
scacchi. Ma quale raziocinio può soccorrere quando il baratro è nella mente e
nel mondo? Potente sintesi de “I demoni” di Fedor Dostoevskij
diretta da Adriana Follieri –che ha curato
la drammaturgia col protagonista-, “Esse o non Esse” è lo spettacolo applaudito
al Teatro Pasolini in cui Fiorenzo Madonna ha dato al pubblico tutto ciò che è
lecito attendersi da un interprete e anche di più: carisma, capacità di
infondere vita sempre nuova negli infiniti volti della simulazione,
consacrazione totale a un personaggio che oscilla tra il bisogno di dominare
tutto e il lento annegare in se stesso. Stavrogin è il beffardo demiurgo nella
deriva di corpi e anime, da cui il titolo che rimanda alla sua iniziale:
sposare il suo cinismo o aggrapparsi a un ideale, anche se su tutti, allo
stesso modo, calerà il buio. Gli altri personaggi sono pezzi della scacchiera
che lui manipola. Il pedone impiccato a una sottoveste è la bambina che ha
stuprato (che infatti si suiciderà), la madre è torre e regina, perché non c’è
madre che non abbia peso in un’esistenza, gli amici (il buon Satov, Kirillov
che vuole essere dio di se stesso) sono alfieri incollati alla scacchiera
mentre lui si accascia (perché oppongono le proprie scelte al naufragio) o sono
cavalli su cui puntare le scommesse del pubblico. La scommessa è però persa in
partenza: dove correre al di fuori del ruolo che ci cuciamo addosso? Lo stesso
re in cui Stavrogin si identifica è un carillon: dunque un giocattolo,
un’illusione. Sull’onda di una contaminazione musicale che spazia dal canto in
vernacolo al francese –per accrescere un effetto straniante-il gioco perde così
con feroce sarcasmo la sua connotazione di arma della ragione per testimoniare
un’aporia in cui Dio è necessario al senso della vita, ma non esiste.
Dissipatore delle proprie energie e di quelle altrui, ama l’ostentazione per
esorcizzare inutilmente il senso di colpa che lo perseguita. Ringrazia al
microfono le sue vittime, Borges, Dostoevskij
stesso, si trucca di bianco dopo aver derubato un impiegato, sputa sul palco lo
champagne acquistato col furto, tenta di confessarsi per poi tingersi di rosso
e nero (si è scoperto definitivamente demone: la confessione non purifica, è
una presa d’atto della propria natura), declama il monologo di Amleto
circondato dai pezzi della scacchiera per poi scalciarli via, getta con lo
stesso slancio l’abito della donna a cui sarebbe conveniente unirsi e i fogli
che lo inchiodano. Uno di essi ha l’impronta del suo viso. È quello che ha
tentato di fare da sempre: lasciare una traccia che lo distingua, che lo renda
riconoscibile. Non è un caso che i soli momenti di quiete (“attimi di infinita
armonia”) avvengano su un lembo di prato dove sono sepolti gli amici: dinanzi
alla nudità della morte la gioia sognata sembra balenare, in un istante, con
più forza. E quando imprigiona il suo corpo nel filo del microfono declamando
“Penziere mieje”, canto di morte e di libertà, è inchiodato alla vertigine del
nulla. Meglio troncare il respiro che assistere ancora al ridicolo tentativo
degli uomini di trovare qualcosa che sopravviva al male e alla follia.
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