Vigilare,
vigilare di continuo. Gli stessi gesti (soffiare su una candela accesa nel
medesimo modo per esprimere la necessità di nutrirsi, salutarsi disponendo le
braccia in attente geometrie), gli stessi ritmi (la nervosa pulizia delle
scarpe, l’elenco delle qualità delle balene con tono all’apparenza
impersonale), addirittura lo stesso modo di comunicare ciò che realmente si
pensa, schioccando la lingua sui denti o sostituendo una risata con
un’onomatopea. E difendere i confini, naturalmente. Tenere ben chiuse le porte.
Ma ciò che è delimitato attende solo di essere superato, violato, modificato.
Attenta riflessione sull’intolleranza e la diversità, “Ho. Me” è lo spettacolo
della compagnia Vernice Fresca Teatro che ha aperto con successo presso
l’Auditorium centro sociale di Via Cantarella la seconda stagione di Mutaverso,
la manifestazione che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico.
L’allestimento, ideato da Martha Festa che è in scena con Jessica Festa, Rossella Massari, Arianna
Ricciardi, si avvale della drammaturgia di Valentina Gamna e della regia di
Massimiliano Foà. Le due donne che costruiscono la loro vita in base a un
preciso copione sanno di doversi difendere dagli stranieri; facile pensare al
dramma dei migranti, ma è proprio la categoria dell’altro a essere temuta e
ripudiata. Lo spazio domestico rispecchia un contesto che vuole riconoscere
solo se stesso, come mostra la vicina armata di fucile. Quando però una donna
che ha perso tutto giunge dal mare attraverso una porta (dimenticata?) aperta, l’equilibrio
si infrange e le protagoniste vivono la ripugnanza, il sopruso, la complicità,
il bisogno di ricominciare. Le attrici sanno creare con spiazzante concretezza
i meccanismi della manipolazione: la danza a cui costringono la profuga è un
tentativo di modellarle l’anima attraverso il corpo e la straniera la imita con
dedizione ossessiva nel tentativo di essere accolta. Il lenzuolo che copre il
corpo dell’estranea nel sonno (sonno disprezzato, perché toglie tempo alla
vigilanza) mira a seppellire ogni sua traccia non meno dell’elusione delle
domande fondamentali (“Voi non siete come noi” “Noi chi?”. “Siamo in guerra con voi” “Voi chi?”). Un
ruolo va in pezzi tuttavia proprio dove si pretende che non sia scalfito. Per
non destare sospetti, la nuova venuta è presentata come la sorella delle
abitanti della casa e nella menzogna c’è la verità; sono infatti unite dalla
prigionia, l’una dello sradicamento, le altre del pregiudizio. La descrizione
dapprima fredda e poi accorata delle balene, animali liberi che hanno in se
stessi, non in un codice, la ragione di esistere, è una presa d’atto
dell’inutile pretesa di definire, incasellare, confinare in un ambito, tanto
che una delle interpreti si lascerà tutto alle spalle. Le scarpe che cadono in
terra al momento di abbandonare l’abitazione richiamano alla mente coloro che
sono morti,ma anche le infinite strade che sarebbe stato possibile percorrere
lontano da ciò che disumanizza. Le grandi scale in scena da cui osservare lo
spostamento dei cetacei preannunciano l’urgenza di superare le percezioni
annichilite dall’insofferenza. Su una di esse si arrampicherà “l’intrusa”, per
volgere al mare che l’ha risparmiata lo sguardo di chi comprende che ascoltare
i sensi e le emozioni è il primo passo per trovare in se stessi la propria
casa.
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