L’arte,
l’identità, quel miraggio che è la memoria dei padri: non esiste approdo che
possa dirsi sicuro né contraddizioni che si possano sanare. E l’individuo, nel
suo ruolo umano e creativo, si trova
esposto a un’esistenza sottovuoto, ovvero di plastica. Proprio quest’ultima è
un elemento chiave ne “Il paradiso degli idioti”, lo spettacolo interpretato da
Paola Di Mitri (che ne ha curato la drammaturgia e regia) al fianco di Nicola Di Chio, Miriam Fieno, Francesco
Marilungo, che ha rappresentato la nuova tappa di Mutaverso, la stagione
teatrale diretta da Vincenzo Albano. Dalla plastica nasce a fatica Adamo e
dello stesso materiale è la foresta alle sue spalle. In una busta plastificata
si trova la mela che lo condurrà a trasgredire e la pistola destinata ad
ucciderlo. La riscrittura della Genesi in cui una donna scimmia deve aprire la
via a un nuovo mondo dopo l’omicidio del primo uomo, concepita da Andrea, perso
nei suoi deliri, vuole rappresentare una svolta in un panorama culturale che
non ha più nulla da dire: l’ironia verso una drammaturgia contemporanea ubriaca
di sé, ma inefficace, percorre tutta la messinscena. Lo sforzo risulta appunto
velleitario (“Il paradiso degli eroi” è impietosamente ribattezzato “Il paradiso degli idioti”), perché la convenzione che si
vorrebbe superare sbarra di continuo la strada a una manifestazione espressiva
autentica. Non è un caso che Adamo sia afasico: le parole sono a loro volta di
plastica, incapaci di instaurare una comunicazione, come mostrano i dialoghi
tra Andrea e la sorella Sonia, artista che vende statue viventi e si oppone tenacemente alle scelte del
giovane. Che partita può esserci tra mercato e fantasia? Sonia si vestirà
coerentemente di buste di plastica quando, troneggiando come una divinità e
un’imbonitrice, proporrà l’acquisto del fratello a sua volta mutato per un
lungo attimo in statua vivente. “Ci siamo tutti rotti i coglioni dei simboli”,
urla la venditrice. Che diavolo dovremmo farcene di sovrasensi e allusioni
criptiche? Che vinca l’artefatto, l’omologante, ciò che può divenire moneta di
scambio, tanto più che il “testamento morale” di un padre ingombrante –umano
solo nella morte, come è ormai facile attendersi- è un foglio bianco. Né
passato né futuro sembrano sottrarsi a una plastificazione dell’anima. Comunque
la si giudichi, però, l’opera ha vita propria. Ciò che l’amante dell’arte
produce si spinge oltre le sue aspettative, perché ha la forza di
sopravvivergli. La donna scimmia e Adamo infatti si oppongono sistematicamente
al copione scelto per loro, l’una sostituendo la sensualità alla violenza, l’altro
restando legato alla genuinità degli istinti, come mostra la maschera d’asino
spesso indossata che in lui rivela l’essenza, mentre nel suo creatore è vuoto
orpello. E quando nel finale è proprio la figura destinata a un nuovo inizio a
sparare al divano su cui i due fratelli siedono, sgonfiandolo, c’è una
speranza. Cadano pure dal loro piedistallo tutti i sedicenti artisti del mondo:
sarà proprio l’immaginazione, fiera di essere se stessa e altro da sé, a
coprirli di ridicolo.
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