Puro,
intangibile, assoluto. Ma anche pronto a lasciarsi contaminare, sempre teso a
sfuggire a quelle “gabbie stupide” che sono le definizioni. Il sacro si
richiude su se stesso nel momento in cui lo si cerca, spingendo a desiderarlo
dove nessuno spenderebbe sguardi e parole. Il pubblico diventa compagno di
strada in “Farsi silenzio”, la performance, progettata e interpretata da Marco
Cacciola su drammaturgia di Tindaro Granata, che ha aperto presso la Chiesa di
Sant’Apollonia di Salerno la IV stagione di Mutaverso, che ha in Vincenzo
Albano il suo direttore artistico. Il lungo sguardo silenzioso sugli
spettatori, l’interrogarli su un
concetto di sacro che non abbia nulla da spartire con la religione (proprio per
sottrarsi a categorie stantie), indossare cuffie per ascoltare i suoni che
hanno accompagnato il suo viaggio da Milano a Roma e percepire con lui il lento
cadere della pioggia all’esterno della chiesa sono passi che Cacciola compie con
la dedizione di un fratello con cui dividere fatiche e sogni, che cerca una ragione per vivere in ogni
esperienza e in ogni contesto. Tra le suggestioni di Vivaldi e di John Cage, le
parole della vecchia Alcea, musica antica in cui immergersi, e l’invito di Antonio Tarantino a cercare tra
gli ultimi la meta dell’itinerario, il protagonista diviene viaggiatore e
strada, occasione di epifanie e complice del mistero che si annida anche nei
gesti più semplici. Il silenzio diventa allora la dimensione in cui
riappropriarsi del respiro del mondo, creare nuove attese e nuove opportunità
di riscoprirsi umani. È naturale che il viaggio non abbia fine. Se è ugualmente
sacra la vita di chi si spegne e di chi si rimette in cammino, inizio ed
approdo possono finalmente essere la medesima cosa.
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