Raccontarsi
al mattino i sogni cupi e grotteschi è un rituale a cui le coppie si
affezionano. E se la coppia stessa diventa un
rituale? Basterà riavvolgere il nastro del tempo? Spettacolo
calorosamente accolto al Centro Sociale di Salerno, “Il bambino dalle orecchie
grandi”, di cui Francesco Lagi ha curato la regia e la drammaturgia, è stato
proposto nell’ambito di Mutaverso, il progetto di Erre Teatro a cura di
Vincenzo Albano. L’allestimento, cha il suo punto di forza nella naturalezza e
nella dedizione di Anna Bellato e Leonardo Maddalena, non è tanto un’indagine
sui sentimenti ma sul loro carattere illusorio: l’illusione di comprendersi,
ritrovarsi, di essere sempre l’uno il rifugio dell’altro. A maggior ragione se
si condivide un difetto fisico con cui non si è mai fatto definitivamente pace:
la grandezza delle orecchie, che connota anche il bambino di un sogno sospeso
tra il buffo e l’angoscioso. Quelle orecchie, che ai più risultano orrende,
alludono alla spudoratezza dell’amore e del desiderio, che si impongono
all’attenzione nei momenti più impensati. La diversità unisce i protagonisti
nella tenerezza e nella cocciutaggine, li divide quando fa emergere la loro
essenza. Lui, collezionista di suoni, adora l’infrangersi delle cose; lei non
sopporta che le cose vadano in pezzi. La frattura sarà inevitabile (il suono di
un unico oggetto distrutto in una registrazione che avrebbe dovuto
tranquillizzare la compagna). Fraintendimenti, piccoli egoismi, disattenzioni
sono crepe che anticipano un crollo rovinoso. Non resterà allora che sognare
(ma potrebbe essere vero) che i due si siano già amati e lasciati nel passato. Ecco
dunque che la quotidianità diventa eco di qualcosa per cui, tanto tempo prima,
in una distanza fiabesca, è valsa la pena vivere. Le orecchie grandi sono
dunque anche tentativi di rintracciare legami dove la logica scorge solo
distanze. Sotto ogni azione fiorisce sempre un significato, un suono, che
bisogna portare faticosamente alla luce. L’ultima scena ripete, a ruoli
invertiti, quella iniziale. Inutile sciogliere l’ambiguità tra reale e
immaginario. Lo sguardo appassionato con cui la donna attende l’amante e il
futuro sulle note di una canzone di Califano (ironico contraltare a un
romanticismo duro a morire) è eloquente: non si può rinunciare a
quell’illusione chiamata felicità, anche se l’infantile bisogno di essere
egoisti sa essere terribilmente sordo.
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