Lo
stesso ufficio, la stessa postazione, il lavoro più noioso al mondo (inserire
dati in un computer), perfino gli stessi gesti nel passare da un quadro
narrativo all’altro. Sembra incredibile che ci si possa scoprire persone anche
lì. Applaudito al Teatro Nuovo di Salerno nell’ambito di Atelier, la rassegna
di Loredana Mutalipassi e Antonio Grimaldi, “Un anno dopo” di Tony Laudadio per
la regia di Andrea Renzi sintetizza trent’anni di vita lavorativa in una serie
di scene che colgono di sorpresa il quotidiano. Ogni “fotogramma” infatti getta
una luce diversa su giorni ancorati a un contesto asfittico. L’ufficio non a
caso è privo di finestre e gli appendiabito a rotelle, provocatoriamente muniti
di stampelle colorate, delimitano uno spazio che promette immutabilità. Eppure,
così come i confini possono essere ridefiniti (lo spostamento degli
appendiabito), anche la più anonima delle giornate rivela la natura di chi la
vive attraverso dialoghi dal ritmo brillante (“Sai che siamo in un regime
capitalistico?” “Davvero? Credevo che fossimo solo poveri”; “Non ci può essere
amore in una provincia” “Al massimo ci si vuol bene”). Se Goffredo (l’energico
Arturo Scognamiglio) è un chiacchierone che si mostra intraprendente e a cui la
vita provinciale sta molto stretta, Giacomo (Ettore Nigro, attento a ogni
dettaglio) è tutt’altro che propenso a spendere parole, tranne nel momento di
un acuminato sarcasmo. L’ambiente anestetizzante diventa lo spazio di una
specularità sfaccettata. Lo slancio energico di Goffredo, che rimprovera al collega di essere morto perché
privo di iniziativa, potrebbe essere l’esito della vita del suo interlocutore,
che a sua volta, nel disincanto e nella concretezza, potrebbe incarnare
l’evoluzione dell’impiegato con cui divide le giornate. L’estrema coerenza con
cui sono tratteggiati i protagonisti non li rende comunque prevedibili. Giacomo
ama scrivere sinossi, perché l’essenziale diventa marginale in una dimensione estranea a ciò che è umano; la
passione per le giovanissime, fatale a Goffredo, è il fatuo rincorrere un’ansia
di dinamismo e cambiamento puntualmente vanificata, dato che è troppo difficile
eludere il copione cucito sulla pelle da momenti sempre uguali. Poiché però sono
i piccoli cambiamenti sotterranei a fare la differenza, l’amarezza silenziosa
di Giacomo nello scoprire la mancanza del compagno e la tendenza di quest’ultimo
a imitare gesti e ironia dell’uomo che ha sempre avuto sotto gli occhi
preparano una riscossa dinanzi alla routine. Nella scena conclusiva troneggiano
come vedette sulla scrivania in un tripudio di fogli gettati all’aria. Hanno
imparato ad abitare il tempo, a non scomparire nel suo gorgo. “Il futuro è un
predatore”, avverte Giacomo. Per questo un attimo condiviso è più importante di
stanche, inutili certezze.
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