Se un ligure pretende di mettere nel sacco un ebreo, casca
decisamente male : quattromila anni non passano certo invano. Se però
l’interlocutore sa burlarsi delle proprie disgrazie, non è forse pronto a farsi
convertire? Accolto da un pubblico divertito e partecipe alla Sala Pasolini,
“Un ebreo, un ligure e l’ebraismo” ha visto all’opera Moni Ovadia e Dario
Vergassola sugli aspetti di una religione (o meglio, di un modo di vivere) che
sa sorprendere chi voglia buttarsi alle spalle usurati pregiudizi e stereotipi
incancreniti.
Ovadia, affabulatore
incantevole, inanella storielle legate ai contesti più disparati (il sesso, la
famiglia, il commercio, la persecuzione) accomunate da battute fulminanti che
lasciano piacevolmente interdetto l’ascoltatore. Vergassola, che ci tiene a
precisare che è maschio ma non esercita, attua un sarcastico controcanto alla
narrazione dell’artista, che si apre a tutte le suggestioni possibili esattamente
come l’Yiddish, lingua anarchica per eccellenza che accoglie ogni vocabolo
recepito nella sua lunga storia (boss è parola che viene da lì, per esempio),
come si conviene all’idioma dell’esilio. Tra gli ashkenaziti presenti in
Germania, i sefarditi in Spagna e i Romanioti nelle isole greche, non si può davvero
dire che quello ebraico sia un mondo statico: una tradizione di cui essere
gelosi, ma anche capacità di coglierne i lati paradossali: un sentimento della
dignità, ma anche capovolgimento malizioso di atti e figure considerati
mirabili. L’ironia è, in effetti, l’arma più potente che gli Ebrei abbiano mai
usato contro i nemici e la propria parte oscura. Sono il popolo pronto ad
accogliere il decalogo proposto da Dio, una volta compreso che è gratis.
Osannano la madre, che difende in ogni modo il figlio, ma la trasformano, in
particolare nella cultura americana, in una creatura castrante, che non va per
il sottile quando deve dettare legge al suo figliolo. Hanno il pragmatismo dei
fratelli Gershwin che, alla domanda se nelle loro opere nasca prima la musica o
il testo, rispondono all’unisono “Il contratto”; il sarcasmo di Rubinstein che,
a chi chiede perché i pianisti ebrei siano pochi, risponde “Prova tu a fuggire
con un pianoforte sulle spalle”; la sagacia di Abrahmovic che, dovendo
aggiungere una didascalia alle foto in cui Chruscev è felicemente circondato da
maiali, scrive “Il terzo da sinistra è il compagno Chruscev”. Valore aggiunto,
il mondo ebraico non è sessuofobico. Con buona pace delle beghine cattoliche,
il sesso è un dono di Dio da accogliere con favore, in cui l’uomo deve alludere
e la donna può chiedere esplicitamente. “La vera educazione viene dalla madre –
ricorda Ovadia- Il grembo materno difende da ogni sventura e l’ebraismo non
contempla lo stupro etnico”. Chi segue i due protagonisti nel loro percorso
comprende quale sia il vero viaggio che non può attendere : oscillare senza
remore tra arguzia e disincanto.
Nessun commento:
Posta un commento