martedì 19 luglio 2022

Napoli, una lettura in chiaroscuro

 

Raccontare la città di Eduardo, madre di ogni immaginario, senza restare intrappolati nel clichè, è impresa alquanto difficile. Non è pienamente riuscita a “Bastimento Napoli”, scritto da Sergio Mari e Fabio Marone con gli arrangiamenti di Giovanni Liguori, nell’ambito della seconda edizione di Salerno Classica. Lo spettacolo, in scena presso il Duomo, ha unito musica, danza e recitazione nel presumibile intento di illustrare lo spirito partenopeo attraverso voci diverse dello stesso linguaggio, ma il solo Ensemble Lirico Italiano, diretto dal Maestro Francesco D’Arcangelo, ha rappresentato la vera ossatura del progetto. Melodie amatissime, da “Cicirinella” alla Danza rossiniana, a “Je te vurria vasà”  hanno preso corpo attraverso i luminosi timbri del soprano Annalisa D’Agosto e Fernando Galano, voce e chitarra, quest’ultimo impegnato in un’esecuzione non  sempre calibrata con il ritmo dell’orchestra. Non è un caso che “Tu m’aje prommiso quattro moccatora”, canto delle lavandaie del Vomero risalente alla fine del 1200, abbia iniziato e concluso lo spettacolo attraverso i gesti antichi della danzatrice Alessandra Ranucci, china su una tinozza a lavare panni proprio come un tempo : il mondo napoletano, infatti, sa che quel che è stato non muore mai del tutto, ripercorre il qui e ora. Mari, prodottosi a propria volta nella danza senza riuscire tuttavia a trasmetterne il fascino, ha incarnato diversi personaggi : Masaniello, il cui invito a prendersi la piazza ha coinciso con l’ingresso degli orchestrali sul palco, dato che la musica è libertà; il lungimirante impresario Domenico Barbaja, pronto a murare nello studio il vivacissimo Rossini, pur di indurlo a rispettare gli impegni presi; Donizetti innamorato dei vicoli partenopei in cui cercare la poesia;  il fatuo Gagà e, naturalmente, il Pulcinella assetato di vita anche nell’incubo della guerra. Qui, però, lo spettatore ha avuto la sensazione di trovarsi dinanzi a uno strumento che suona sempre la stessa nota : un approccio nervoso, febbrile al ruolo, ora trattenuto, ora più evidente, al servizio del proprio narcisismo più che della versatilità richiesta dall’interpretazione. L’urgenza di lasciare il proprio segno ha, infatti, tolto il respiro al momento della drammatizzazione. Il colmo della retorica è straripato nell’omaggio finale a Pino Daniele. L’aver riadattato all’occasione “A livella” di Totò ha reso il celebre cantautore una presenza benevola a cui chiedere di essere ancora un riferimento per tutti coloro che amano l’arte e, di conseguenza, vivere. Una scelta più che mai capziosa, volta a sollecitare una facile commozione, ma che si è risolta in un esito inadeguato al livello del tema. È mancato il senso dell’equilibrio che richiede l’arte napoletana, dove ciò che emoziona può divenire in un attimo grottesco. Su tutto è svettata la musica, il dono prezioso di una città meticcia che sa sottrarsi a stanchi stereotipi.

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