Non sta “triplettando la
pupilla”. Non sta “scarciofando la bocca”. Non invia messaggi erotici a ogni
movimento delle anche. Quale segreto inconfessabile cela quella donna che a
distanza di sei mesi resta ancora “accucciata” nella sua vedovanza? Con chi si
trastulla nel segreto della (apparentemente) tranquilla vita della Gela bene?
Facendo del monologo di Silvana Grasso pane per i denti della sua ironia, Licia
Maglietta offre un’interpretazione brillante ne “Il difficile mestiere di
vedova”, lo spettacolo accolto con entusiasmo al Teatro Verdi nella serata
conclusiva del Festival Linea d’Ombra. Sulle note del più carezzevole dei
mandolini, in un contrappunto dettato dal sarcasmo, la protagonista, Silvana,
racconta l’attenzione comicamente maniacale con cui le signore che frequentano
il prestigioso club nautico “La cozza” seguono ogni suo passo, nella speranza
di darle un compagno per scongiurare l’”epidemia di corna e di divorzi” che la
sua avvenenza può scatenare. In una leggerezza che ha però il suo peso (visto
che a comparire in controluce è la solitudine, il dolore, la mancanza di senso)
quella che viene definita senza appello “la più Circe tra le Circi”, la
“buttanona sperta”, ovvero un mix di stregoneria e genialità, ha un asso nella
manica, che non ha che fare col corpo, di cui è indizio la sua passione per il
greco, la lingua meravigliosa che sa donare luce a qualunque aspetto della
realtà. Silvana sa che la scrittura è salvezza, scudo contro ogni forma di
malvagia idiozia e in un gioco straniante di equilibri rende la finzione la
migliore alleata della verità. Decide cioè di “teatralizzare” se stessa, di
impersonare il ruolo della mangiauomini cucitole addosso per lasciarsi alle
spalle la sofferenza di chi si ritrova priva di punti di riferimento. Dato che
è impossibile conoscere l’essenza di un individuo ed è infinitamente più facile
attribuire le proprie nevrosi all’universo, tanto vale recitare nel modo
migliore la parte che il pubblico, ovvero la collettività falsamente sollecita,
esige e vuole applaudire. I ridicoli pretendenti (il mellifluo Rolando, il
pedante Romeo) raccontano un’umanità talmente grottesca che la si sente di
colpo vicina. Che si voglia scomodare Pirandello o meno, la menzogna della
“scena” regala all’esistenza quel significato che di fatto le è precluso. E a
volte esiste più autenticità in un gesto buffo ed eclatante che nella bieca
condiscendenza degli ipocriti.
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