Inseguire la verità,
restituire il volto alle cose, fare del linguaggio un grimaldello per aprire
tutte le porte ostinatamente chiuse. E poi ritrovarsi solo con le proprie
parole. Ne vale davvero la pena? Non è mille volte meglio fare gli idraulici
invece che i giornalisti? “Questione di un attimo”, lo spettacolo di Roberto
Solofria tratto dal testo di Emanuele Tirelli e interpretato da Antimo Navarra,
ha aperto con successo al Teatro Genovesi la seconda edizione di Out of Bounds,
la manifestazione promossa dall’Officina Teatrale LAAV di Licia Amarante e
Antonella Valitutti. Francesco Miniato è un giornalista costretto dalla sua
misera paga a lavorare in un ristorante nel centro commerciale Il gorilla (nome
emblematico che rimanda alla sopraffazione e a qualcosa di grottesco e
ingombrante), all’interno del quale scopre e denuncia una gigantesca operazione
di riciclaggio; scelta che gli costa minacce e isolamento. La scrittura di
Tirelli, giornalista e autore, possiede una concretezza abbagliante che si
carica di tensione; si percepisce il bisogno di superare la soglia del dato, di
ridefinire le coordinate del fatto. La regia di Solofria sceglie un simbolismo
che non sacrifica la complessità all’immediatezza grazie al dolente e ironico
lavoro sul corpo condotto da Navarra. Il protagonista appare in un angolo del
palco, comunicando subito il disagio di chi è posto ai margini dalla propria
esigenza di conoscere. Parla a un piccolo registratore portatile anche quando
lo si vede accovacciato sulla scena, sotto il peso di forze che vogliono
spegnere la sua ansia di comunicare e non è un caso che dia sempre la
sensazione di parlare a se stesso anche quando il copione sembra presupporre un
pubblico: è faticoso ascoltare chi vuole capire. La tribuna da cui comunica i
suoi progressi e a cui giunge muovendosi tra gli spettatori (un giornalista si
espone, sempre) è affiancata da due cubi: all’interno di uno c’è la piccola
riproduzione della sala del ristorante e nell’altro un registratore da cui
giunge la voce di una fidanzata esasperata da una vita tutt’atro che
convenzionale. I due cubi rimandano alla tendenza a “inscatolare” il tempo, a
rinchiuderlo in categorie che sono solo trappole. I fantocci che appaiono ai
piedi di Navarra come in un teatrino alludono alla volontà di manipolazione
propria della criminalità e i fili bianchi che collegano il proscenio alla
tribuna esprimono la ramificazione del disegno malavitoso ma anche il suo
intento di prendere di mira chi non è allineato. L’alternarsi febbrile di buio
e luce indica il difficile percorso dell’inchiesta; quando Francesco si
riferisce alla dichiarazione di un pentito che può “illuminare” la faccenda, il
buio dell’omertà inizia a dilagare sul palco, spezzando in bocca il discorso. Le
pistole che sparano bolle di sapone quando il giornalista cerca disperatamente
di mettere i genitori al riparo da ritorsioni rivelano l’incapacità di
fronteggiare un pericolo forte di troppe connivenze. La decisione di lasciare
tutto è comunicata fuori campo (esporsi ancora? Per cosa, ormai?) mentre
l’interno della tribuna mostra un acquario che riproduce la scenografia con
tanto di pesciolino meccanico che si muove invano da una parete all’altra. Al
fluire delle frasi si preferisce un’immobilità straniante. Eppure la sconfitta
non si rassegna a se stessa, perché se la fine è il momento più difficile, dice
il giovane, è il mentre a contare, a dare un senso. Giocarsi l’anima fino in
fondo è veramente questione di un attimo.
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