“Quello a cui
assisterete non è uno spettacolo, ma una lettura animata con personaggi e
oggetti in cui sarete anche voi artigiani della visione”. Entrare nel mondo di
Mimmo Borrelli è sorprendentemente facile. Qualsiasi diaframma tra lui e lo
spettatore si dissolve in “Cante e schiante”, l’atto d’amore verso il
“popolaccio ostile” dei Campi Flegrei che ha concluso “Per voce sola. Parole
della nostra scena”, la rassegna ideata e diretta da Vincenzo Albano sostenuta
dalla rivista Puracultura. Al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno
letteralmente invaso dal pubblico, Borrelli, in cui condivisione e concretezza
marciano di pari passo, ha spiegato le dinamiche della performance ispirata a
“A sciaveca”, frutto di una lunga gestazione nel passaggio dai versi al palco,
così che l’irruenza del dialetto potesse fluire senza ostacoli, ironizzando
sulle suggestioni con cui si è misurato (le stimmate di Tonino o Barbone che
ricordano Cristo, ad esempio, perché “O cattolicesimo m’ha accis pur’a me!”).
Tra pochi oggetti in scena sufficienti a creare un contesto (un bastone, uno
sgabello, dell’acqua), in un testo che sembra scritto nella carne e che fa
emergere bellezza e orrore come la sciabica, la rete da traino che cattura
alghe e pesci, la forza evocativa della parola materializza un immaginario
nutrito da passioni, rancori, visioni, brutalità, tenerezze, bestemmie
apotropaiche, ansia insopprimibile di vivere. Mutamento e immutabilità si mescolano
nella storia dell’amore calpestato tra Angela e Tonino, ucciso con l’inganno.
Cinquesecce, il fratellastro di quest’ultimo che la stupra insieme a due
balordi, è a sua volta nato da uno stupro. La stessa sorte subisce da parte del
padre Pacchione, un monco che l’artista crea curvo e con due scodelle che gli
nascondono le mani (un’inazione schiacciata dal peso della consapevolezza e che
non può sanare le sue ferite aggrappandosi a una croce di legno, immagine di un
sacrificio senza redenzione) e la stessa brutalità torna nel terzo fratello,
Peppe Schiumetta, un prete preoccupato solo di se stesso. La trasformazione di
Tonino redivivo in pesce e di Angela in delfino, l’animale che fa da tramite
tra immanenza e trascendenza, esprime in una dimensione fiabesca la rivalsa
della vita sulla morte (il colera che è anche malattia dell’anima). E solo il
mare, che annulla ogni concetto di spazio e tempo, avrebbe potuto raccontare
una vicenda in cui tutto può morire e tutto può rinascere.
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