L’indicibile accade fuori scena (fuori delle
proprie difese e certezze). A sipario chiuso riecheggia uno sparo, mentre
imperversa il suono di una pioggia violenta. E quando il palco diventa
visibile, una guardia cerca di decifrare alla luce incerta di una torcia i nomi
che costellano le pareti di quello che sembra un ampio cunicolo sotterraneo. È
un viaggio tutt’altro che agevole dal buio alla luce (quella del nulla o della
rinascita) “Una pura formalità”, lo spettacolo diretto e interpretato da Glauco Mauri, in programma
fino al 9 novembre alle 18.30 al Teatro Verdi di Salerno. Ispirata all’omonimo
film di Giuseppe Tornatore, la messinscena è un lungo duello verbale tra il
commissario di una stazione di polizia che genera inquietudine per il senso di
abbandono in cui versa (lo stesso Mauri) e Onoff, uno scrittore a cui Roberto
Sturno dona tutta la disperata energia di chi si sente messo all’angolo ed è
costretto a rimestare nel proprio passato alla ricerca delle risposte che non
vorrebbe trovare. La vicenda si snoda con l’inesorabilità di un redde rationem
in cui ricordi, false piste, allusioni, sorprese si susseguono in una ricerca
della verità che culmina nel ritorno al punto di partenza: Onoff è carnefice e
vittima, dato che si è ucciso con lo sparo udito all’inizio. Non è un caso che
sia uno scrittore, ovvero una figura che dovrebbe osservare con un’acutezza al
di sopra della norma l’assurdità del vivere: lo scacco diviene allora ancora
più bruciante, perché le parole non sono riuscite a contrapporsi al peso
dell’esistenza, per quanto l’opera sia comunque destinata a sopravvivere al suo
autore (l’ultimo romanzo che diverrà un successo). In questo oscillare tra la
coscienza e il rimosso, gli interpreti compiono su se stessi un paziente lavoro
di scarnificazione, mettendo progressivamente a nudo le proprie pulsioni fino a
riconoscere la propria essenza di viaggiatori privi di meta. La sofferenza che
divora l’anima è una sorta di rituale che si perpetua oltre il tempo: i nomi
sulle pareti della stazione appartengono a chi ha condiviso la sorte del
protagonista, dinanzi alla quale il commissario diviene nume tutelare, confidente, accusatore, dolente
complice di un uomo inchiodato all’impossibilità di strappare se stesso ai
propri limiti. Non resta che cercare ancora, malgrado sconfitte e solitudini,
un significato che possa illuminare, anche solo per un istante, il vicolo buio
che la vita può essere. E quando, prima di perdersi in un altrove troppo
lontano da ogni raziocinio, Onoff si chiede “E adesso?”, i protagonisti si
voltano in silenzio verso la platea, nella vana attesa che una risposta si
manifesti.
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