Ogni verità risiede nella
carne. L’epicentro di ogni conoscenza è lì, dove crollano alibi e menzogne e il
rimosso è pronto a esplodere. La carne restituisce l’uomo a se stesso anche a
costo di precipitarlo nel peggiore degli incubi. In una serata che vedrà gli
interventi di Alfonso Amendola, Elio Goka e Davide Speranza, con “Vietato porno
amen”, diretto e interpretato da Antonio Grimaldi e dalla Compagnia Teatro
Grimaldello, in programma alle 20.30 di stasera presso il Teatro Diana di
Nocera Inferiore, non si assiste solo a una messinscena tratta liberamente da
“Salò o le 120 giornate di Sodoma”, ma anche e soprattutto a una cristologia
rovesciata che non approda a nessun cielo. Ripiomba sulla terra con la stessa
violenza con cui Grimaldi si accascia al suolo dopo essersi colpito.
L’appuntamento rientra nell’ambito della rassegna Di Segnato Tempo, che si
avvale del sostegno del Comune di Nocera Inferiore e dell’associazione
culturale Noceracconta. L’amore per il più scomodo intellettuale che l’Italia
possa vantare viene da lontano. Già “In nome del padre” era stato reso omaggio
a quel lancinante amore per l’esistenza e per una consapevolezza non allineata
che aveva caratterizzato Pasolini a dispetto della morte crudele che lo aveva
rapito e di tutti i tentativi di distorcere il significato del suo percorso. Il
regista appare nudo sullo sfondo del deserto (omaggio al celebrato “Teorema”)
per poi offrirsi come una sorta di vittima sacrificale a pulsioni segrete:
quelle che spingono a schiacciare, a reprimere, in un orgiastico bisogno di
autoaffermazione. Il suo corpo resta disteso sul palco durante l’intera
messinscena, perchè ciò che è scritto nella pelle non si cancella, mentre gli
interpreti, vittime e carnefici, sono prigionieri dell’ossessivo rituale della sopraffazione.
L’atmosfera di Salò rivive nella sua crudezza. Sotto fasci di luce rosso
sangue, mentre campeggia l’immagine del Giudizio Universale, i corpi diventano
nient’altro che cose da esibire e calpestare in un asfittico delirio di
onnipotenza. Guardare nell’abisso è l’unico modo per non esserne risucchiati e
se l’antico binomio pathos /matos, dolore/conoscenza si rinnova di continuo, la
sofferenza muta della donna in nero dinanzi all’uomo abbandonato al suolo (una
donna araba, una madre, il simbolo di qualcosa di irraggiungibile) chiude in un
fermo-immagine il bisogno della carne di essere vita e non sepolcro.
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