Può essere estremamente scomodo appurare le motivazioni di un uomo,
sondare cosa si nasconda dietro i suoi alibi, ma forse le maschere esistono per
questo: per crollare sotto il proprio peso. Feroce come una rasoiata e intenso
fino a mozzare il respiro, “Il signor Bovary” (Edizioni Intermezzi) conferma la
vocazione di Paolo Zardi alla crudeltà che i lettori avevano già sperimentato
in “Il giorno che diventammo umani”. Una crudeltà che non ha nulla a che fare
con la tendenza masturbatoria propria di tanti scrittori che colpiscono per il
puro piacere di dimostrare quanto si sentano abili nel colpire, ma che attinge
alla carne e a quel grumo incongruo che sono le sensazioni, perché non si
scaverà mai abbastanza a fondo in quello che un individuo prova e perché non
esiste altro che questo inesorabile scavo. L’omologo dell’antieroina di
Flaubert è estraneo alla sua stessa vita. Zardi fa ingoiare a chi legge il
sapore dell’alienazione nelle nude sequenze di gesti, oggetti, luoghi che
vampirizzano chi dovrebbe viverli, ma un’identità di plastica non può resistere
all’impudenza del desiderio. E quanto più il protagonista si identifica nel
ruolo che ha scelto (un quarantenne che oscilla tra convenienza, doppiezza e
vanità) tanto più è consumato nell’adulterio dall’ansia di felicità. La
facilità con cui le illusioni incendiano e muoiono si nutre di una caustica
concretezza che coinvolge in ogni momento di questo lento precipitare nel
nulla. Anche l’usurata metafora degli scacchi (lo scontro tra chi agisce e ciò
che lo distrugge) assume un senso più autentico, perché la vicenda narrata è lo
specchio in cui non si può fare ameno di osservare la propria immagine. Non
occorre un gesto eclatante per essere schiacciati dalla fragilità: basta
ricordarsi che il sangue continua a scorrere nelle vene, mentre la morte e il
cinismo tessono le loro trame. Nel deserto che attende chi ha osato sognare di
più, la voce narrante è dentro e fuori il percorso di dissoluzione: distanza e immedesimazione
si equivalgono quando si cerca una via d’uscita per quelle “creature
scricchiolanti e male assemblate” che sono le persone. “Il signor Bovary”
rovescia il concetto di maieutica. Da sè, da quei corpi ingannevoli che sono le
parole non proviene una consapevolezza salvifica, che conduca a rigenerarsi. E
l’ultimo viaggio non prevede bussole né strade ben tracciate.
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