“Non vivo con te. Condividiamo
semplicemente la stessa cella” dice la protagonista a suo marito. Quando
Pasolini affermava che la famiglia è un’associazione a delinquere, non era
certo lontano dal vero. È lì che si annidano le pulsioni distruttive, i rancori
ostinati, gli egoismi che non si lasciano addomesticare. Una dimensione che la
scrittura affilata di Tennessee Williams descrive perfettamente ne “La gatta
sul tetto che scotta”, che Arturo Cirillo ha diretto con successo presso il
Teatro Verdi di Salerno. Lo spazio della
camera da letto che si apre talora sul giardino (ma non esistono concrete
aperture verso qualcosa che non sia il legame astioso tra i personaggi) è
giocato su un accentuato cromatismo che ricorda Hopper ed esaspera il clima già
rovente. Meggy la gatta (una Vittoria Puccini che si illude sull’efficacia
incondizionata di una recitazione enfatica) sconta la sua incapacità di
rassegnarsi alla finzione di un contesto borghese pervaso da avidità e
disprezzo. Le viene infatti rinfacciata la mancanza di figli, l’unico status
che sancisca il diritto della donna a esistere, da persone di fatto sterili dal
punto di vista dei sentimenti, la cognata Mae e la madre di famiglia (Clio
Cipolletta e Franca Penone, attente a ogni sfumatura del proprio ruolo). Non
sono migliori il cognato Cooper (Francesco Petruzzelli) o il capofamiglia (il
vigoroso Paolo Musio) troppo ossessionato dal controllo dei familiari per comprenderli
e consumato da un male oscuro che è chiaro simbolo della divorante ansia di
imporsi. Il cameo di Salvatore Caruso nel duplice ruolo del reverendo Tooker e del dottor Baugh rivela a
sua volta l’aridità irrimediabile del sistema. Chi non rientra nelle categorie di
questo mondo non può che essere irrimediabilmente fuori posto, come Brick, il
marito di Meggy (Vinicio Marchioni, credibile nella sua sofferenza scontrosa),
in cui la gamba ingessata è chiara allusione a una castrazione del desiderio. Il
suo corpo bloccato anche negli approcci con la moglie è immagine di un rimosso
che non è riuscito a emergere (il legame con un amico, morto tragicamente, che
contava più di quanto si possa spiegare). Come sfuggire a un ambiente così
orgogliosamente cieco dinanzi a ciò che non possa fagocitare? Proprio
attraverso quel desiderio sconfessato dalla tendenza a vedere negli altri
nient’altro che il proprio strumento. Il bimbo che Meggy dichiara di attendere
nel finale, dato che i borghesi condividono il solo linguaggio della menzogna,
potrebbe non nascere mai, ma mentre lei resta sul bordo del letto e Brick la
osserva dalla soglia forse sta vedendo in lei una persona. In quel letto,
forse, stanno per incontrarsi delle anime e non solo corpi ingabbiati in un
copione che non sono stati liberi di scrivere.
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