Liboria Serrafalco, detta
Borina, non se lo sarebbe preso neanche morto, Cataldo Di Liuzzo “Pilorosso”. Ma
poiché nella Sicilia del bel tempo andato il matrimonio è d’uopo, la “canna a
stendere” è costretta a convolare a nozze con quel tarchiato “crapulato di
eczema” che non ha neppure il buon gusto di lasciarla vedova. Tratto dal testo
di Silvana Grasso che mescola esuberanza linguistica e vetriolo, Licia Maglietta
ha diretto se stessa in “Manca solo la domenica” presso il Teatro Augusteo di
Salerno, accompagnata dalla fisarmonica di Vladimir Denissenkov, che diviene
con la sua musica testimone curioso, complice, eco di quel che la protagonista
sente dentro di sé. L’artista sa coinvolgere in ogni momento della messinscena,
orchestrando con perfetto equilibrio i toni del sarcasmo, del rancore, del
desiderio. Quella che potrebbe apparire una negazione dell’identità (perdere il
marito relega la donna a esistere in funzione dell’uomo non meno del vincolo
coniugale) diviene preziosa e grottesca occasione di ottenere un posto al sole
nella beneamata società. La regalità di una vedova non teme confronti: sfoggiare
il lutto nelle occasioni comandate, incedere con dignità per le vie del paese,
scegliere con cura certosina i migliori fiori per il caro estinto fanno
dell’inconsolabile una figura di tutto rispetto, da guardare con ammirazione. E
poiché contano i ruoli, non le persone, la convenzione, non il sentimento, essere
inquadrati in una categoria, non vivere autonomamente, ben si comprende l’odio
di Borina per il marito, emigrato in Australia e preso da un’altra donna, che
le nega “il piacere del cimitero”. L’apparenza val bene anche il prezzo più
assurdo ed ecco che, dopo una selezione che farebbe impallidire per
accuratezza, Borina si finge vedova di sei sconosciuti che visita dal lunedì al
sabato in sei diversi cimiteri, tutti così equanimi da essere passati
rapidamente a miglior vita senza coinvolgere ipotetiche spose nei loro malanni.
Il carattere ossessivo del rituale è sottolineato da un scenografia tutta
giocata sull’iperbole: il gigantesco Cuore di Gesù che non ha garantito la
dipartita di Cataldo, una parata di abiti neri che rifornirebbe dieci atelier,
lapidi su cui sedersi la cui trasparenza non allude solo all’amorevole pulizia
garantita dalla donna, ma anche al bisogno di vedere riflesso in esse uno
status da difendere con le unghie e con i denti. Il ritorno a casa di Cataldo
gli sarà fatale: come osa mettersi tra lei e i suoi mariti? Dapprima sarà la
sostituzione della saccarina con lo zucchero per volgere il diabete del coniuge
a suo favore e poi un liberatorio colpo apoplettico assicurerà al consorte un maestoso monumento
funebre. Anche la domenica sarà così riservata all’elegante omaggio (memorabile
la scena in cui Borina prepara il suo tailleur nella paziente attesa che il
marito lasci questa valle di lacrime). E i consigli dati a una donna anch’essa
in cerca di un defunto che le permetta di entrare nel novero delle vedove
conferma tutta la crudeltà di un copione che seppellisce ogni etica sotto
l’imnmagine, borghese fino all’osso, della rispettabilità.
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