“Gira e rigira, sempre qua
si ritorna”. Ha la sicurezza di un oracolo il ragazzo seduto in prossimità
della battigia. La sua cecità, il cane Argo, l’attesa del padre rimandano
immediatamente a Omero, ma le storie che si narrano in questo microcosmo mirano
a esorcizzare ciò che si ostina a riaffiorare. Applaudito presso il Piccolo
Teatro del Giullare di Salerno, “Patres”, scritto dal regista Saverio
Tavano, ha aperto GEOgrafie, la rassegna ideata e diretta da Vincenzo Albano
dedicata al meglio che la scena calabrese possa offrire. C’è molto da scoprire
in questa storia apparentemente semplice (attendere un genitore che non fa che
ripartire). La fune che lega a un piede il giovane (Gianluca
Vetromilo, che crea subito empatia con il pubblico con la sua tenerezza
disarmante e mai innocua) è un modo per proteggerlo, secondo il suo Ulisse
senza gloria (Dario Natale, che dà vita a un personaggio dall’affascinante
ambiguità). È tuttavia anche un modo per confinare lontano dal proprio maschio
vigore la prova evidente del tempo che passa e una debolezza mal sopportata da
chi celebra solo il proprio egoismo. Al suo ingresso sul palco, l’uomo danza
sulle note di una musica balcanica, perché ogni viaggio mescola coordinate e
suggestioni nuove, e compie flessioni per ribadire la sua instancabile energia.
La corda è tuttavia anche immagine di un vincolo che non vuole essere infranto:
quello con la fanciullezza, di cui è segno la nave giocattolo, simbolo tra
l’altro della sostanziale piccolezza umana, e con una natura da vivere senza
filtri (l’illusione di questo nuovo Telemaco di percepire i colori solo
allungando le mani, perché non occorrono gli occhi per sentirsi parte del
tutto). Padre e figlio si rivelano complici, antagonisti, lontani e vicinissimi
come nell’ironica iniziazione sessuale con una bambola gonfiabile che si
lanciano divertiti come due bambini. L’adulto, sedotto dagli inviti di uno zio
a mollare tutto, racconta per isolare il figlio nella sua condizione, per
soffocare il disagio di una presenza puntualmente tradita. Ed è infatti un
tradimento a emergere tra le parole di un vernacolo ben distante da qualunque
dimensione folkloristica e necessario nella sua ruvida e musicale concretezza.
È ormai definitivamente compromesso il legame con il mare – e dunque, con la
vita- verso cui si proclama amore e rispetto. Si allude a morti e menomazioni
legate a una nave mefitica, sulla quale forse il padre stesso è stato
imbarcato, e si fa strada il sospetto che la cecità sia conseguenza di un
disastro che questi non ha saputo o potuto impedire. Si arriva allo scontro, ma
chi genera e chi è generato sono le due stagioni dello stesso individuo: non
possono essere separati. Il cieco lasciato a dondolarsi su una sedia mentre si
immagina timoniere, prima del nuovo abbandono, è lo struggente tentativo di
seppellire nel sogno il dolore della perdita. Ma tanto, “sempre qua si
ritorna”. Non si può sfuggire né alla mente né al passato. Per quanto il viaggio
non abbia più né bussole né approdi, si deve tornare dove un’identità dispersa ha
iniziato a desiderare ciò che le resta precluso.
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