Che il quotidiano possieda
una sua bellezza nascosta è affermazione solo all’apparenza ovvia. Viviamo un
tempo che cannibalizza se stesso in cui la percezione è divenuta un groviglio
di stimoli, smarrendo la sua natura di via tutt’altro che lineare verso ciò che
attende di essere rivelato. Le foto di Marcello Cataliotti Natoli obbediscono a
un’empatia così intensa con il loro oggetto da lasciare disorientati. Non
semplice documentazione di un dato, ma prolungamento della vita segreta che
quel dato racchiude in sé. Non una raffinata ricezione di quel che intercetta
il campo visivo, ma respiro di quel che viene catturato, liberazione delle
energie che ogni elemento a suo modo possiede, fino a fare dell’immagine una
consustanziazione laica di ciò che si è voluto cogliere. Fotografare è per
Cataliotti Natoli rinascita di quel che è stato visto/vissuto, attenzione
amorosa e totale riservata non a caso all’inanimato (porte, tavoli, strumenti
di lavoro, bicchieri, squarci di interni, strade) che in quanto tale è adatto a
creare un discorso sempre aperto nell’ambito della fruizione. Una cosa creata
in base a una precisa funzione non è mai semplicemente se stessa. Come si
presta docile all’uso per cui è nata, allo stesso modo diventa occasione per
scrivere una storia diversa, per accogliere gli echi e le suggestioni di chi
l’utilizza e arricchirli con i propri. Le istantanee di questo artista che si è
cimentato con il teatro, la scrittura, la tecnica mista (e dunque ha
dimestichezza con tutte le salutari ambiguità del linguaggio) si spingono ben
oltre ogni codificazione estrema di realismo e instaurano con lo spettatore una
comunicazione silenziosa proprio attraverso il mezzo dell’alienazione contemporanea
(il telefono cellulare), non più simbolo di assimilazione passiva, ma di
interazione fertile con il contesto. Cataliotti Natoli sa che la fotografia è un conto non saldato
con il tempo. Non tanto perché oppone persistenza a fugacità, esigenza che accomuna
le più disparate forme d’arte, ma perché ridefinisce in modo continuo e
beffardo i confini della visione. L’occhio non smette di dialogare con ciò che
è stato fissato e che innesca un cortocircuito con il presente, un presente che
non si contrappone a quello che è stato fotografato, ma se ne lascia
contaminare, fino a dissolvere ogni diaframma rispetto a quel che è intimamente legato a un dove e a un
quando. E nelle immagini del siciliano l’atemporalità dell’ascolto visivo
diviene riscoperta di quel che i sensi possono cogliere. (Nella foto, Bisbigli).
Nessun commento:
Posta un commento