Complicità, lusinghe, desiderio.
Ma anche amarezza, contrasto, solitudine. L’amore non possiede certo un unico
volto, ma sa trarre forza da se stesso nelle peggiori circostanze. È basato sul
carteggio negli anni dal 1913 al 1915 tra Francesco Fusco, ufficiale medico, e
Stamura Segarioli, maestra elementare, “Il fiore che ti mando l’ho baciato”, lo
spettacolo diretto con successo presso il Teatro del Giullare da Antonio
Grimaldi. L’allestimento ha origine dalla volontà della nipote Rosa Fusco e su
iniziativa dell’Associazione culturale Centro Studi sul Teatro Napoletano,
Meridionale ed Europeo presieduto da Antonia Lezza, presso la cui Biblioteca è
custodito il materiale documentario inedito degli eredi Fusco. Nel buio del
palco la luce nasce da un cofanetto che contiene le missive, perché anche le
“storie minime” hanno il diritto di essere sottratte alle tenebre del tempo che
inghiotte tutto. In una veste bianca, il colore della promessa e della tenacia,
Annarita Vitolo, che ha curato con il regista e con Elvira Buonocore la
scrittura scenica e drammaturgica, crea una protagonista che affascina
immediatamente la platea nel mescolare forza e disinganno, passione e
scoramento, attraverso un’interpretazione misurata e intensa che affida a pochi,
eloquenti gesti la narrazione di quel percorso a ostacoli che sono, oggi come
ieri, le relazioni. I ventilatori che disperdono ai lati della scena i fogli
talvolta fatti a pezzi tra cui la donna ondeggia alludono a un bisogno di
evadere dalla prigionia amorosa (è terribilmente facile essere soffocati da ciò
di cui non si vuol fare a meno). I due non possono tuttavia che ritrovarsi,
perché vivono una condizione simile: la fatica di crescere il figlio nato dalla
loro unione contro pregiudizi e disagi non è meno logorante delle giornate al
fronte. Non è un caso che il leitmotiv della messinscena, nella selezione musicale
curata da Cristina Milito Pagliara, sia “Non dimenticar le mie parole”. Le
parole degli amanti lasciano tracce profonde e le lettere sono archivi di
anime. E anche se a Stamura non resta che una coccarda, una valigia, un
elmetto, dall’oscurità della scena iniziale emerge una donna che non ha smesso
di amare e di amarsi. Un foglio che diviene barchetta per divertire il suo
bambino segna un nuovo inizio. La guerra spezza le vite, ma non la voglia di
vivere.
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