Gianni
Rodari? “Uno squallido e fesso che scriveva in rima baciata”. Pasolini? “Un
vanitoso a cui andava bene la povertà altrui”. Zucconi? “Anni in America e non
capirne un cazzo”. La scuola italiana? “Serve a seppellire, non a entusiasmare”.
Sfugge forse qualcosa all’impeto demolitore di Amleto De Silva? Alfonso Gatto,
a cui ha dedicato una Lectio Minimalis presso la Chiesa di Sant’Apollonia a
Salerno in occasione del quarantennale della morte del noto artista. Pur conoscendo
benissimo gli infiniti modi con cui la parola può raggirare e deformare, Gatto “cercava
attraverso essa i modi per capire l’uomo, cioè per amarlo”, scrivendo di tutto
(architettura, calcio, resistenza), intuendo la fragilità del sogno americano,
assaporando la vita più intensamente proprio misurandosi sempre con il pensiero
della morte, anche nei versi più ariosi. “Io non credo di aver mai commesso
viltà” disse in una lontana intervista. Non avrebbe potuto descriversi meglio:
il suo linguaggio suadente, mai aggressivo, capace di spaziare tra i registri
più diversi, complesso e limpido, diventava occasione per narrare l’esistenza
da prospettive sempre nuove e sempre obbedendo a un’onestà intellettuale. E quando
si legge che “Morire è una stagione, un’aria, un cielo”, si comprende che i
poeti sono necessari quanto la luce, forti della propria anima contro chiunque
pretenda di “aver capito il gioco”.
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