Due è il
numero perfetto, a meno che non si desideri sposarsi, riprodursi e invecchiare
serenamente insieme. La commedia di Miniero e Smeriglia, diretta da Luca
Miniero e applaudita presso il Teatro Verdi, affoga le dinamiche della coppia
in un catalogo di stereotipi che fa sembrare Vanity Fair (citato non a caso
come autorevole fonte di statistiche) un capolavoro di psicologia. Raoul Bova è
Marco, calabrese fiducioso nel binomio amicizia-copula, che considera un
sacrificio supremo rinunciare alla soppressata. È professore di ginnastica con
ambizioni di filosofo, impegnato in un trattato sull’essere, “Due” appunto, che
però non vedrà mai la luce, perché non c’è risposta definitiva alla condizione
umana. Paola (Chiara Francini), pedante, nevrotica e dissacrante, guarda con
timore al matrimonio che li attende. E mentre lui monta il letto, le domande
della fidanzata costringono a riflettere su desideri e frustrazioni. Le sagome
in scena riproducono ciò che saranno i protagonisti tra vent’anni, con amanti e
figli, pronti a cadere nella trappola della noia da cui li salverà solo la voglia
di condividere corpi e risate. Tra approccio pseudofilosofico e zumba infatti
non c’è partita: ecco il palco tramutarsi in discoteca e l’invito “Scopiamo?” dissipa
ogni tipo di dubbio. Che si abbia una visione ironica del sesso o del pensiero
di Epicuro, citato nel modo più banale possibile, ben venga. Il problema è che
quella che viene presentata come leggerezza è in realtà superficialità che non
può contare neppure su una scrittura accattivante: l’unica battuta degna di
essere ricordata, pronunciata dopo la conclusione perché gli amanti sono sempre
problematici, riguarda la voglia di avere un figlio da parte di Paola a cui
Marco risponde. “Ma non sai mai chi ti metti in casa!”. Le voci fuori campo dei
telegiornali all’inizio della messinscena alludono ad attentati terroristici.
L’intento è probabilmente quello di contrapporre alla macrostoria il “dramma”
da tinello di due borghesi, ma la scelta resta un’inutile aggiunta. Le assi di
legno appese alle spalle dei protagonisti alludono alla difficoltà di creare
qualcosa che sappia davvero resistere allo scorrere del tempo e diventano
simbolo dei luoghi comuni affastellati nello spettacolo (l’incapacità di
restare con l’amante, il bisogno di rincorrere la giovinezza, la genitorialità
carente) e che diventano asfittici proprio perché totalizzanti. Se il cortese
Raoul Bova sembra svolgere un compito a cui per primo non crede, Chiara
Francini è sicuramente generosa nel dominare il palco dall’inizio alla fine, ma
la sua prova risulta statica perché giocata quasi sempre sull’unica nota
dell’attacco a ogni retorica. Sottovalutare la leggerezza evidentemente non
paga.
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