Che quello
scapestrato di suo figlio fosse destinato a lasciare un segno nella storia, è
qualcosa che il padre di Churchill non avrebbe immaginato neppure in sogno. Che
il potere logori soltanto chi non ce l’ha è una bugia che molte porte chiuse e
molte solitudini potrebbero prontamente smentire. Basato sul testo di Carlo
Gabardini, “Churchill, il vizio della democrazia”, lo spettacolo “Winston vs
Curchill”, diretto da Paola Rota e allestito al Teatro Verdi di Salerno, ha
visto all’opera un energico Giuseppe Battiston, che ha redarguito senza mezzi
termini l’ennesimo spettatore mononeuronico troppo innamorato del proprio
cellulare per rendersi conto che il teatro è un luogo in cui si pensa. E se non
esiste più il pubblico di un tempo, anche gli uomini non brillano più delle
antiche qualità. La solitudine in cui di fatto si muove il protagonista è anche
quella di un’umanità che preferisce archiviare, sotterrare, dimenticare.
Rinunciare alla propria natura è però impossibile ed ecco che Churchill,
all’interno di un cerchio di minuscole luci come si conviene a una star sotto i
riflettori, ricorda a briglia sciolta fasti, momenti tetri, contrasti, battute
di spirito, complessi equilibri, discorsi ufficiali in cui scommettere tutto,
la credibilità prima della vita, senza risparmiare a nulla e nessuno un
sarcasmo che avrebbe messo a dura prova anche i nazisti. Ostinato nei propri
vizi per opporsi al cane nero, come lui chiama la depressione che gli mangia l’anima,
facendo della sua imponenza fisica il riflesso di un peso troppo grande (la
salvezza della patria), lo statista celebra il proprio egocentrismo tra un
Churchill Martini, un sigaro e ricordi ingombranti: una figlia suicida, il
bisogno di avere ancora tutto nelle proprie mani, la voglia d’amore soffocata
ma non spenta. L’infermiera al suo fianco (la carismatica Maria Roveran)
diventa compagna di gioco (quali sarebbero le ultime parole di entrambi?) ma
anche vendicatrice: il padre è tornato distrutto dalla guerra voluta proprio
dal suo paziente ed è stato proprio il nome di quest’ultimo a restare sulle sue
labbra in punto di morte. La donna non sa perdonargli di aver fatto la cosa
giusta, di aver promesso e mantenuto “lacrime e sangue”. Le conseguenze di una scelta diventano
cicatrici. Chi sopravvive a un disastro non riesce mai ad allontanare
definitivamente l’ombra della morte, ma l’interpretazione appassionata di
Battison impedisce di cadere nella trappola della retorica. Il personaggio
eccessivo e inquieto che viene pazientemente costruito sa conquistare e
coinvolgere, mescolando con rara scaltrezza dignità, dolore e sfida continua
alla rassegnazione. Quando un discorso che incoraggia le nuove generazioni ad
agire per la società risuona alla radio e l’uomo resta seduto in poltrona, sta
celebrando il suo funerale. Al tempo stesso però sta dimostrando che il passato
non è stato vano. In fondo, come dicevano già i Greci, “anche al tramonto è
sempre sole/il sole”.
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