Volete
conoscere l’essenza di uomini e cose? Interrogate i miti e le fiabe e avrete
ogni risposta, soprattutto se provengono da una terra magica come quella
calabrese. “N cielo e n’terra” è lo spettacolo di e con Carlo Gallo,
accompagnato dal musicista Emmanuele Sestito, che ha raccolto calorosi applausi
alla Torre Vicereale di Cetara nell’ambito di Teatri in blu, il progetto curato
dall’associazione Erre Teatro di Vincenzo Albano. Corpo e voce acquistano in
Gallo la stessa duttilità, la stessa concretezza ammaliante attraverso il ritmo
di una lingua antica e nuovissima, un idioma che, attingendo a tutte le risorse
del vernacolo, restituisce esseri e paesaggi a se stessi e coinvolge gli
spettatori in un viaggio di crudeltà e incanti. Il primo cunto, U pruppu du re,
è una vicenda di riscatto sociale ed umano, ambientata tra il cielo, dove una
principessa domina incontrastata, e la terra, in cui gli uomini devono
faticosamente affrontare ogni giorno: una gerarchia che è l’esatto opposto
dell’armonia tra i viventi. Il cielo infatti è qui sinonimo di manipolazione e
superiorità (sono gli uomini a scontare le guerre che la principessa scatena),
la terra è l’esistenza in tutti i suoi limiti e i suoi abbagli. Il protagonista
può divenire re (bastare a se stessi è il privilegio degli dei, non dei
mortali), dato che la donna di sangue nobile sposerà chi le sottoporrà un
indovinello irrisolvibile; diversamente, sarà impiccato come già accaduto a
tanti malcapitati. Gioca un ruolo importante lo stregone del mare, incarnazione
dell’immaginario, che pesca il più grande polpo mai visto e che donerà fortuna
a chi se ne ciberà. L’enigma, che nessun sapiente riesce a svelare, coincide
con la vita del giovane, la lunga serie di avventure dalla terra al cielo
innescate da un pane avvelenato, che la madre gli prepara, perché preferisce
ucciderlo che farlo ammazzare dalla principessa. Dal racconto dunque emerge
come vivere sia un mistero insolubile e come il passato tema terribilmente ciò
che il futuro può portargli. Altro aspetto rilevante è il potere come malattia
dell’anima, cupo annebbiamento di ogni empatia: per punire sia la madre che la
principessa, che ha cercato di eliminarlo, il giovane sta per condannarle a
morte. Sarà lo stregone a ricordargli di compiere tre gesti d’amore (tanti
quanti sono i cuori del polipo) verso la genitrice, la nemica e il mondo
intero. Il tre è in effetti da sempre sinonimo di armonia e stabilità, che
possono avverarsi solo lontano da ogni sopraffazione. Nel secondo cunto, U
Paterannu, il Padreterno prova una gioia infinita per la creazione della
Calabria, a cui ha donato le sette note per alzare canti alla Madonna, ma
ignora l’esortazione di quest’ultima a benedire l’opera, perché vuol riposare
dopo tanta fatica. E il diavolo ne approfitta: rubando il si, le sei note
diventano frasi aggressive e solo le lacrime della Vergine, che generano lo
Ionio e il Tirreno, benediranno la “Calabria arrubbata”, dove l’egoismo di uno
solo è la condanna degli altri a una cecità non solo materiale, perché il suono
imperfetto dell’anima si tramuta in ingiustizia e dolore. Se Dio prova
sconforto e rabbia come una sua creatura, perché cielo e terra sono fratelli,
la terra può ancora meritare l’amore del cielo. Il gesto caritatevole di una
donna incinta, promessa vivente di rinascita, spingerà tutti a riacquistare la
vista attraverso l’acqua, da sempre simbolo di energia e di eternità. Non vi è
ferita così profonda che il creato non possa risanare, se si ricorda di restare
umani.
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