Non crederete
mica che sia una bestia leggiadra, amabile, pacifica. È una “gran buttanazza
fetusa”, venuta al mondo per far disperare i pescatori e fare una
”roncisvallata” di pesci spada nello stretto di Messina, beffando tutti con il
suo “genio di mente”. Il delfino appare come non lo avete mai immaginato in
“Epica fera”, l’emozionante spettacolo di e con Gaspare Balsamo in cui Francesco
Salvadore contribuisce a creare un’atmosfera tesa e struggente col tamburo e il
canto sulle qualità e la fine dell’animale o sulle sirene predatrici in una
mare, che è eterna tenzone. Il cunto, che rielabora alcune parti del romanzo
“Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, ha concluso tra gli applausi, sulla Tonnara
Maria Antonietta a Cetara, “Teatri in blu”, il progetto di Vincenzo Albano. Il corpo
e la voce di Balsamo, tra la fascinazione dei pupi e l’energia del vernacolo, rendono
il racconto profondamente vivido. Il delfino è fera, circondata dalla solennità
sacrale del canto epico, perché strazia reti e pesci con la vorace astuzia che
le ha permesso di ottenere la bellezza, quando Dio la degradò da angelo a
diavolessa. La sua furia traditrice è tuttavia figlia della natura: fa parte dell’oscillare
senza tempo tra vita e distruzione. Per questo il capo della barca, che ha
catturato un maschio (fragile quanto gli uomini, dato che, preso dalla passione
per la compagna, non ha colto la minaccia), ricorda che non c’è posto per la
vendetta in un gioco dove ognuno fa la sua parte e l’ammirazione si mescola
alla sofferenza quando, nella conclusione, i pesci spada sono sterminati da
fere di ogni tipo ( a “sangu ianco”, a “pinna suprana”, a “denti a zappuni”),
descritte a un pescatore orbo come torme di guerrieri. Tutti siamo orbi dinanzi
alla grandezza, se si nutre di forze antiche e sempre vive di fronte alle quali
siamo ben poco. Non vi è alcuna grandezza invece nel potere, che pretende di
stabilire priorità anche linguistiche in modo insindacabile. Il fascista che esalta
la dolcezza del termine delfino è specchio di quello che scaricherà l’intero
caricatore nel cranio del mammifero col pretesto di liberarlo. Ridicoli nella
loro superbia, i potenti si muovono tra vuoti vocaboli da deformare, per sempre
lontani dall’essenza delle cose. Questa appartiene solo a chi non ha casacche
né si sente al di sopra di quel mistero che è l’esistenza. La cialoma, il canto
della mattanza, celebra il cupo splendore della morte contro i fascisti di ogni
tempo, che non sanno di essere già morti.
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