Saggezza,
liberazione, acutezza di giudizio: è questo che si attribuisce allo scorrere
degli anni, che compensano le energie tolte con uno sguardo più attento alla
realtà. Questo però accade solo se si ha la forza di sfuggire alle proprie
frustrazioni. “Il tempo è veleno”, diretto da Francesco Saponaro e scritto e
interpretato da Tony Laudadio al fianco
di un generoso cast particolarmente sensibile a un ritmo calibrato ((Teresa
Saponangelo, Andrea Renzi, Eva Cambiale, Angela Fontana, Lucienne Perreca) ha
avuto una positiva accoglienza al Teatro Pasolini di Salerno. La
rappresentazione si muove su due livelli strettamente complementari: il peso
della vita vissuta come prolungamento ostinato di angosce causate da errori e
omissioni e la coesistenza di vivi e morti nello stesso spazio scenico (la casa
di famiglia da cui ammirare il golfo napoletano), che è fisso e non a caso
privo di porte, in quanto non si sfugge a ciò che ha originato un’esistenza.
Solitudini, contrasti e incomprensioni nascono da una falsa paternità
illegittima descritta in una lettera della madre Bianca e dal segreto del padre
Paco, un ginecologo dedito alla fecondazione assistita. Laudadio conosce il
pregio di un’ironia feroce. Le due azioni, che cambieranno tutto, avvengono per
denaro, motivazione decisamente prosaica, che mostra come sogni e speranze non
sfuggano al cinismo e al ridicolo. Si assiste inoltre a un capovolgimento di
senso: entrambe le scelte si basano su una fertilità, che di fatto rende
sterile la trama dei rapporti tra difficoltà a comprendere il proprio ruolo e
fiducia che va sonoramente in pezzi. Il tempo non diventa quindi alleato ma
nemico, perché ingigantisce le distanze colmabili guardandosi dentro fino in
fondo. Alla figlia Marta gioverà una verità rivelata da chi sa che i fantasmi
sono compagni fedeli, l’uomo che soffre di aver causato, sia pur
involontariamente, la morte dei genitori di lei. Tale verità, didascalicamente
legata a Napoli (sottolineatura superflua, ma gli artisti di quella città la
fanno coincidere col mondo intero) è che vita e morte devono riconoscersi,
abbracciarsi, trarre il proprio senso l’una dall’altra. “Ci vediamo domani”
dice con amore Marta agli spettri del padre e della madre, che la guardano con
l’affetto paziente di chi ascolta e comprende. Ormai la donna sa che il tempo
può guarire da se stesso, dal momento che domani e ieri sono i nomi vuoti di un
eterno attimo.
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