Lui e la felicità appartengono a razze diverse : Momò era
solo un bambino quando lo ha capito. Eppure quella frase conclusiva, “Bisogna
voler bene”, nella sua nudità e concretezza, suona talmente vera da sgomentare
anche chi non si aspetta più nulla da una vita “schifa”. Commozione e ironia
s’intrecciano in “La vita davanti a sé”, lo spettacolo, interpretato e diretto
da Silvio Orlando, tratto dall’omonimo romanzo di Romain Gary, che ha riscosso
un pieno successo presso il Teatro Verdi
di Salerno. Ad ampliare le
suggestioni dell’allestimento interviene l’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre.
Il protagonista, un arabo nato da una prostituta, cresce, insieme ad altri
pargoli nella sua identica condizione, nell’appartamento di un’ex peripatetica
a Belleville, Madame Rosa, ebrea rude e bonaria che incassa piccole somme per accudire
i piccoli e non ha mai dimenticato il trauma della persecuzione nazista : ha
infatti predisposto qualche mobile in cantina per nascondersi da eventuali
aggressori. La scenografia riflette le atmosfere di questo mondo povero e
vivace : il palazzo in cui vivono i personaggi (l’amabile travestito Lola, i
volenterosi facchini che scarrozzano ovunque la monumentale Rosa) dà l’idea di
essere stato creato assemblando scatole di cartone, allusione alla fragilità,
ma anche alla persistenza del vissuto, e presenta fili di luci che evocano un
tendone da circo. È appunto il mondo circense ad affascinare Momò, perché lì
nessuna angoscia è ammessa, proprio come accade con la sala di doppiaggio, in
cui si ritrova quasi per caso, e dove una pellicola è riavvolta all’indietro,
quando si commette un errore : ecco che i vecchi ringiovaniscono, i morti
risorgono, l’irreparabile è allontanato. In fondo, è proprio questo che
vorrebbe il ragazzino: tornare al momento in cui tutto è ancora possibile e la
gioia attende di essere costruita. Poiché però il copione della vita è decisamente
inferiore a un film, Momò è costretto a imparare dalla propria amarezza quanto
sia complicato stare al mondo. Butta in un tombino i soldi ottenuti vendendo il
suo amatissimo cane, perché intuisce che vivere non può ridursi a un
portafoglio pieno. Il suo bisogno di avere una madre che possa accoglierlo lo
spinge a rubacchiare lì dove ci sono donne, ma il furto di un uovo gli procura
solo la carezza benevola della signora al bancone, dimostrando quanto sia
illusorio l’amore. E’, tuttavia, proprio questo sentimento a unire il bambino e
l’ebrea e a tradursi in tenerezza, cura, simbiosi : è proprio nella cantina che
Momò condurrà la donna, in gravi condizioni, ma decisa a non andare in
ospedale, e lì la veglierà dopo la sua morte, truccandola per prolungare il
ricordo di ciò che è stata e ha rappresentato per lui. Il grande merito della
messinscena consiste nell’emozionare senza mai cedere all’enfasi e alla
retorica. Il dolore è spesso presentato in un’ottica sarcastica che non lo
depotenzia, ma gli restituisce spessore : la defecazione del protagonista, che
spera così di attirare le attenzioni della vera madre, chiunque essa sia, e che
assume toni apocalittici nel momento in cui gli altri bambini fanno
altrettanto, è comicamente vissuta dalla loro protettrice al pari della
permanenza ad Auschwitz. Per sbarazzarsi del padre di Momò, che lo rivuole dopo
un lungo periodo in ospedale a seguito dell’uccisione della madre, Madame Rosa
gli fa credere che il figlio sia un bambino ebreo, procurandogli, così, un
provvidenziale infarto: qualunque arabo, infatti, si schianterebbe al suolo
dinanzi alla ferale notizia. Razzismo, solitudine, pregiudizio, rimozione,
voglia di mettersi in gioco sono vissuti senza filtri per ricordare che è la
mescolanza, il sincretismo, la fusione con ciò che altri considerano alieno a
dare sostanza al vivere, come nel tentativo dei danzatori neri di liberare la
vecchia dal suo malessere e nella performance musicale che Orlando esegue alla
fine della vicenda con gli altri artisti. L’attore costruisce le figure in
scena in modo così credibile e intenso da spingere lo spettatore a non perdere
neppure una parola. Nella conclusione, quando Momò ha ormai trovato una
famiglia amorevole, è di nuovo narrato l’episodio dell’uovo. In questo simbolo
di ciclicità e rinascita, la sofferenza non scompare, ma si rigenera e al tempo
stesso sboccia una nuova possibilità. Riavvolgere il nastro della vita è ancora
possibile.
Nessun commento:
Posta un commento