Se nella vita si commette un errore, si rischia che costi
fin troppo caro, ma nel tango, anche quando si sbaglia, si continua a danzare,
annullando tempo e spazio nel seducente afflato di due corpi. Nanà ne è
convinta ed ecco perchè ama rifugiarsi in questo ballo ne “La signora del
martedì”, lo spettacolo, tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Carlotto e
diretto da Pierpaolo Sepe, proposto al Teatro Verdi di Salerno. Attraverso un
approccio recitativo che sa catturare l’attenzione dello spettatore, rendendosi
credibile anche nel momento dell’eccesso, si dipana la vicenda grottesca e
crudele di personaggi, di fatto, relegati in un fermo-immagine. Alfredo (un
attento e coinvolgente Paolo Sassanelli) è il padrone en travesti della
Pensione Lisbona, dove, non a caso, troneggia un orologio senza lancette: non
conta affatto lo scorrere delle ore nella granitica dedizione al luogo in cui,
come ammette lui stesso, si sente una regina e dove accoglie, con tenerezza di
madre, Bonamente (Riccardo Festa, perfettamente a proprio agio tra il dramma e
la farsa). Questi è un attore porno male in arnese, ma legato al ricordo delle
vecchie glorie, pronto a dedicare le proprie energie, ogni martedì, a Nanà
(Giuliana De Sio, che dà prova di carisma e audacia), donna ruvida, scomoda,
fin troppo tagliente nei suoi giudizi e atteggiamenti e che ripete, con una
precisione che non ammette distrazioni, il rituale dell’incontro clandestino.
La scenografia di Francesco Ghisu prevede che lo spazio su cui compare
l’orologio si apra, rivelando la camera di Bonamente : scelta coerente, dal
momento che l’appuntamento tra i due viene percepito da entrambi come qualcosa d’irrinunciabile
e dunque immune ai capricci di un qualunque calendario. Anche la scelta
musicale, basata ironicamente su brani del passato, allude a ciò da cui i
protagonisti non vogliono staccarsi : il gigolo canta “L’immensità” di Don
Backy per esprimere il desiderio di contare davvero qualcosa; il terzo uomo, che sta per sconvolgere tutto,
canta “La notte” di Salvatore Adamo per narrare la propria ossessione. Le
certezze, tuttavia, sono solo illusioni e l’equilibrio tra i tre va in pezzi
all’apparizione di Pietro Maria Belli (un Alessandro Haber che comunica con
efficacia viscido cinismo e tenerezza malata), giornalista di cronaca nera, che
smaschera Nanà: costretta a prostituirsi per i debiti di gioco del padre, ha
scontato vent’anni di galera per l’uccisione dei genitori e del fratello. A
questo punto si hanno continui capovolgimenti di fronte: la donna non solo è
innocente, ma Pietro è stato un suo cliente, follemente innamorato di lei, che
avrebbe potuto fornire l’alibi per scagionarla, ma ha taciuto per il suo cupo
senso del possesso. L’essere costretto su una sedia a rotelle conferma quanto
il giornalista sia prigioniero dei propri sentimenti come la protagonista, che
rivive, nel clima di un allucinato psicodramma, la violenza della polizia che
l’ha spinta a dichiararsi colpevole. Poiché, inoltre, pur di arrivare all’ex
prostituta, Pietro ha minacciato Alfredo di infangare la memoria del suo
amante, suicida proprio nell’albergo, il travestito, scappando con Bonamente, lo
ucciderà e chiuderà Nanà nella pensione, perchè, ancora una volta, paghi per
una colpa non sua. La pretesa di avere la vita altrui nelle proprie mani è
funesta: non esiste più alcuna differenza tra la “regina”, il gigolo e l’ex
cliente, disposti a sacrificare tutto al proprio egoismo. Il suicidio della
donna diviene il sogno di un ultimo tango, interpretato con Paolo Persi. Se il
cuore nero degli uomini è uno stagno immobile, che almeno la danza racconti
quell’altrove che è stato intravisto e poi negato.
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