Gli abitanti del piccolo paese della Calabria-non
occorre un nome, potrebbe succedere ovunque-possono ridere quanto vogliono al
passaggio di “quella”, ”la scema”, “scarpe strane”. Non mostrano certo la stesa
sfrontatezza se si allude alla loro vita apparentemente immobile, dove “ogni
tanto sparisce qualcuno”. “L’Italia s’è desta”, il monologo di Dalila Cozzolino
per la regia dell’autore del testo Rosario Mastrota, ha chiuso tra gli applausi
del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno Geografie, la rassegna ideata e diretta da
Vincenzo Albano sul teatro calabrese contemporaneo. L’ironica naturalezza con
cui la Cozzolino
connota il suo personaggio, un’idiot sauvant in gonnella che possiede, in tutti
i sensi, una vista ben più acuta dei compaesani, innesca immediatamente un
meccanismo di complicità con questa creatura generosa e fragile, sulla quale
gli sguardi tacciono se non per deridere o cercare goffamente di proteggere,
come mostrano le allusioni a una madre spenta dalla lontananza del padre. Carla
Libonati è invisibile come le vittime degli “ndranghetisti” che ordinano ai
“brutti” di “appicciare” i negozi di chi non paga il pizzo e rapiscono e
uccidono, come accade a Maria, l’unica amica della protagonista. Lo spettacolo
si regge su una denuncia sociale tanto più feroce quanto più mediata dalla
leggerezza. La violenza non è confinata in una terra che si costruisce da sola
le sue trappole, ma è sistemica. La statua di Garibaldi per cui sono stati
abbattuti alberi secolari e i contrasti tra il prete “vecchio” e quello
“giovane” esprimono uno scempio dell’etica di cui la sola Carla sembra rendersi
comicamente conto, avvolta in un silenzio che è limite e arma. Quando però a
sparire è la sola cosa che stia a cuore al Paese, ovvero la Nazionale di Calcio
sequestrata dalla malavita, sarà “scarpe strane” a indicare il dirupo in
cui è nascosta con un mezzo, non a caso,
tipico dei criminali: la lettera scritta con ritagli di giornale. E la frase
“L’Italia è nel burrone!” si carica di sensi ulteriori, dato che la legalità si
è schiantata da tempo al suolo. Tutta la felicità di Carla esplode nel sentire
il suo nome alla radio, dato che il Presidente “Sergio Mattarello” la insignirà
di una medaglia, ricevendo in cambio una bella pagnotta. I doni si ricambiano,
non certo come gli “ndranghetisti”
che ripagano il bene col male. Con buona pace di Giulietta, un nome è ciò che
indica, ne legittima l’esistenza. Ma il nome che dovrebbe distinguere
definitivamente dal contesto la giovane ne ribadisce le catene. Libonati, il
padre sparito e desiderato, è il boss assassino di Maria. L’innocenza non basta
a salvarsi dal marcio. E mentre si allontana su una bici dove ha posto un
tricolore con la spensieratezza di una bambina, Carla avverte l’amarezza di
come sia terribimente facile perdere quel poco in cui si crede in un’Italia che
si desta per il calcio, ma non per scrivere una storia diversa.
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